Se è vero che, come scriveva Susan Sontag, la malattia “è il lato notturno della vita”, il piccolo Michel Petrucciani dovette imparare molto presto a tenere a bada i mostri che si annidavano in quel buio.
Nato a Orange nel 1962, il bambino era affetto da una grave malformazione ossea: l’osteogenesi imperfetta, nota anche come “Sindrome delle ossa di cristallo”, una malattia che rende le ossa particolarmente fragili, compromettendo la possibilità di uno sviluppo armonioso del corpo.
Quando aveva quattro anni, Michel vide alla televisione un concerto di Duke Ellington.
Travolto dall’emozione, comprese la potenza liberatoria del jazz e della musica e decise: sarebbe diventato un pianista!
Suo padre, chitarrista jazz molto apprezzato, non prese però troppo sul serio il bambino e, per mettere a tacere la sua insistenza, al compimento dei quattro anni gli comperò un piano giocattolo.
Mossa sbagliata.
Michel, profondamente offeso, recensì lo strumento di plastica ricevuto in regalo in modo adeguato: con un martello.
“Mi avevano comprato questo piano giocattolo. Il più bel giocattolo che ci fosse a quei tempi. Ma aveva il suono di un giocattolo. Quel giorno ho realizzato che se non avessi fatto qualcosa per far capire loro quanto facevo sul serio, il mio sogno sarebbe finito. Allora ho chiesto a mia mamma un martello. Lei mi ha chiesto "Cosa vuoi farci, col martello?" e io le ho risposto "Non ti preoccupare. Dammi un martello". Così, ho preso il martello e ho spaccato tutto. Due mesi dopo avevo un vero pianoforte”
I genitori – ça va sans dire – impiegarono poco tempo a rendersi conto dell’urgenza espressiva che animava il piccolo Michel.
E furono presto ricompensati dalla straordinaria velocità dei progressi che il bambino compiva.
Possiamo solo immaginare cosa possa aver significato per Michel cercare di stabilire un rapporto spaziale efficace con uno strumento tanto grande rispetto ad un corpo minuscolo.
«Quand’ero piccolo, pensavo che i tasti del piano somigliassero a dei denti», avrebbe raccontato in seguito il musicista. Per poi aggiungere «Era come se si prendesse gioco di me. Bisognava che fossi abbastanza forte per far sembrare il piano piccolo. Questo ha richiesto molto lavoro».
Ma se pure il corpo restava prigioniero delle sue pastoie, le mani volavano ogni giorno più in alto.
A tredici anni, i primi live con Clark Terry, formidabile trombettista afroamericano che lo iniziò alle malizie e alle tecniche di quel formidabile esercizio zen che può essere il suonare dal vivo.
Poi venne Charles Lloyd, sassofonista tenore nel cui gruppo aveva spiccato il volo, anni prima, un altro poeta della tastiera, Keith Jarrett.
E poi fu effetto valanga: suonare tutti i giorni, con ensemble jazzistici dinamici, composti da musicisti di valore, diede a quel gigante sotto mentite spoglie una capacità di interpretare il momento live nel modo più bello e autentico: senza rete, senza scorciatoie, dandosi fino in fondo al pubblico e rendendosi tramite - come una trance - fra il fluire delle melodie e dei ritmi e l'energia che solo chi assiste a un concerto può restituire al palco, amplificandola.
A vent'anni dalla sua scomparsa, il libro racconta l'incredibile vicenda umana e musicale di Petrucciani attraverso un percorso per immagini capace di affascinare lettori, musicisti e appassionati di ogni età.
Michel Petrucciani - che scomparve il 6 gennaio 1999 per i postumi di una polmonite che aveva inciso sul suo corpo debilitato da una vita di eccessi - è stato uno degli ultimi grandi jazzisti da palco: erede di una tradizione pianistica di istinto melodico infallibile, raffinata sapienza armonica e contagioso furore ritmico.
Bill Evans, col suo fraseggio elegante, di derivazione classica, è senz’altro fra gli ispiratori di Petrucciani, assieme al già citato Duke Ellington, a Oscar Peterson e a Jarrett.
Ma il gioco delle influenze lascia in questo caso il tempo che trova, perché Petrucciani somiglia solo a Petrucciani. E oggi questa verità è condivisa in modo pacifico dalla pur litigiosissima comunità dei jazzofili di tutto il mondo.
La sua tecnica straordinaria viene considerata come un “case study” da molti jazzisti per via dell’indipendenza di mano destra e mano sinistra e per il modo in cui il pianista è riuscito a trascendere i suoi tanti limiti fisici, trasformandoli in altrettante peculiarità stilistiche.
Body and soul è il titolo di un documentario che il regista inglese Michael Radford ha dedicato nel 2016 a Petrucciani, prendendo spunto dal titolo di uno standard jazzistico particolarmente caro al pianista, che nei trent’anni di una carriera live forsennata ebbe modo di proporne la propria versione a platee diversissime, in tutto il mondo. Nel titolo di quello standard sono compresi i due poli entro i quali l'arte di Petrucciani si è sviluppata e ha preso forma una forma di bellezza senza tempo che redime ogni caducità, ogni fallibilità.
Una forma in divenire, mutevole, capace di sorvolare con leggerezza sulle miserie del corpo fino a ricondurle alla giusta prospettiva.
E visto da lassù, nell'aria sottile dove ascoltiamo la sua musica, quel piccolo uomo somiglia al gigante che è sempre stato.
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