Se ci fosse una parola per descrivere la musica di Sergio Endrigo probabilmente sarebbe saudade, in quella sua intraducibilità portoghese, viva pienamente nella cultura di chi la parla e la fa sua. È una missione tortuosa, forse inafferrabile, quella di rendere una parola nella sua traduzione e ascoltare Endrigo è fare la stessa esperienza: restare sempre a un passo dall’imprendibile, in quell’immensa malinconia, triste allegria, che lo tiene lontano dagli occhi, ma vicino a un punto specifico del sentire.
Il 15 giugno del 1933 nasceva a Pola – quando ancora la città era in territorio italiano – uno dei più grandi cantautori italiani. Amatissimo all’estero, soprattutto in Brasile, Sergio Endrigo è di certo una delle vertebre nella spina dorsale della canzone d’autore del nostro Paese. Figlio di due grandi appassionati di musica, un papà che se non fosse morto giovane avrebbe sicuramente potuto intraprendere una carriera da tenore, Endrigo porta la musica con sé, scorre nelle sue vene, irrefrenabile.
Gli anni che lo separano dal successo sono anni di gavetta pura, di notti nei piano bar e nei night, ma la sua vocazione musicale è altrove. A cambiare la prospettiva della sua carriera è Nanni Ricordi, un incontro che sugella l’infatuazione per il timbro caldo ed emozionante di Endrigo. Il successo vero però arriva nel 1962, quando scrive il brano che lo consacrerà sull’altare della musica, Io che amo solo te, definita poi da Ennio Morricone come la più bella canzone di sempre. Un inno alla costruzione dell’amore, in fondo, una forma di ringraziamento e di promessa a quella scelta complessa e difficile che è scegliersi, ogni giorno, rendendo sacro in qualche modo ciò che si ha con la persona che si ama.
C’è gente che ama mille cose
e si perde per le strade del mondo
Io che amo solo te
Io mi fermerò e ti regalerò
quel che resta della mia gioventù
Quelli che verranno saranno anni incredibili, pieni di successi, di riconoscimenti, di canzoni indimenticabili. Collaborazioni di rilievo, intrecciate con amicizie e rapporti durati una vita. Uno su tutti, il legame con Vinicius de Moraes e il memorabile album in cui partecipa anche Ungaretti, con i suoi versi. Era il 1969 e La vita, amico, è l’arte dell’incontro sbarcava con la sua essenza anacronistica e sperimentalista, teneva insieme la natura di tre artisti, mentre si avventuravano fra le note di un altro mondo – un mondo in cui comporre, interpretare, cantare, esistevano per il puro amore di comunicare, di rendere l’arte viva, l’incontro per eccellenza.
Un altro dei talenti di Endrigo era sicuramente quello di riuscire a comunicare e comporre per i bambini, Ci vuole un fiore, scritta con Gianni Rodari ne è la dimostrazione. Un pubblico difficile, che corre via rapidamente, severo, con quell’orecchio che sembra quasi assoluto, pronto a capire ciò che resta davvero, le canzoni che non si possono scordare, in fondo. Ma la loro approvazione resta e dà speranza, dà la forza anche quando le cose non vanno e la musica, come spesso succede, abbandona i suoi migliori talenti, aspetta altro.
Le parole dell’addio
sono il sale sulla ferita
invenzioni di paura
in notti solitarie
Sanno di voci perdute
di strade tante volte percorse
che ti portano indietro
E così, la sua carriera – perlomeno in Italia – subisce un arresto repentino. Sono gli anni Ottanta e i dischi che si succederanno in quel decennio, ben cinque, avranno pochissima risonanza, pur contenendo delle canzoni meravigliose, intrecciate con temi importanti e costellate di una costruzione linguistica riconoscibilissima, che ha sempre distinto la scrittura di Endrigo.
Una delle sue peculiarità era l’ordinata ed elegante sfrontatezza compositiva, non gli era mai importato di accontentare la brava gente – già titolo di una sua canzone – vedeva le storie che raccontava nella loro essenza, priva di giudizi mediocri e non pensati, giostrandosi solo sulla sua personalissima bilancia di dolori, di piaceri. Aveva questa caratteristica scelta delle parole, non solo un vocabolario che attingesse a un linguaggio d’uso comune, ma si spingeva nell’ardire di terminologie inusuali, talvolta coraggiose, in quell’accostamento unico che trasportava senza abbandonare a una leggerezza scanzonata.
Un allontanamento dalle scene a cui forse era sempre stato pronto, ma che lasciava comunque un amaro sentore di irriconoscenza, di spazio mancato che sa di ingratitudine. Eppure, le sue canzoni sono ovunque, restano nella colonna sonora delle vite di tutti noi che lo continuiamo ad ascoltare.
Nel 2003 incide un brano inedito, Altre emozioni, che sembra quasi un testamento profondo della sua interiorità, come uomo e come artista. Un uomo che ha tenuto quella malinconia addosso, una saudade calzata a pennello, che mai abbandona e che mai lascia soli. Una qualche forma di tristezza che è una qualche forma di amore, come il timbro della sua voce, come le parole delle sue canzoni – tribolato ardore di un amore infinito, per la vita, per la musica.
E siamo arrivati fin qui
Un po’ stanchi e affamati di poesia
Le mani piene di amore
che non vuole andare via
Di
| Baldini + Castoldi, 2021Di
| Gallucci, 2017Di
| Gallucci, 2007Ti potrebbero interessare
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