Qualche tempo fa, ho pubblicato sui miei profili social l’estratto di una bella chiacchierata con Gianpiero Kesten, registrata per una puntata del suo podcast, o meglio, vodcast (cioè podcast video), intitolato Radio Kesten. Il tema del dialogo è stato oggetto di più controversie di quelle che mi sarei aspettata: a un certo punto, abbiamo parlato di linguaggi giovanili, e io, richiamando sia le mie letture, sia la mia esperienza (in fondo, insegno a persone appena maggiorenni), ho contestato l’assunto che le giovani generazioni abbiano meno parole di quelle precedenti.
Piuttosto, ho spiegato, ritengo che gli e le sedicenni di oggi hanno interessi, mondi di interessi, modelli di riferimento molto più lontani da quelli dei loro genitori di quanto lo fossero i miei rispetto a quelli dei miei, di genitori. Insomma, ho detto, penso che, più che una maggiore stupidità, ci sia una maggiore altrovità. Sì, lo ammetto, questa parola me la sono inventata lì per lì, su due piedi, perché mi mancava un termine che potesse indicare quel senso di straniamento che a volte provo, rappresentante della generazione X quale sono, di fronte ai discorsi di mia figlia sedicenne. Ma non la reputo scema, giammai; piuttosto, sento chiaramente la siderale distanza cognitiva che ci separa: l’altrovità, per l’appunto.
la parola del mese è misoneista
Àpriti cielo: se un fronte compatto di persone (molte delle quali, ahimè, docenti: dico ahimè perché insomma, che razza di docente puoi essere, se lavori partendo dal presupposto che hai a che fare con dei poveri idioti?) mi stava attaccando perché secondo loro stavo dicendo corbellerie (perché sì, a detta di molte di loro i “giovani d’oggi” sono più stupidi e superficiali di “noi”), mancando io dell’esperienza quotidiana in aula – lasciamo stare che insegno, studio, giro per le scuole d’Italia visitandone poco meno di un centinaio l’anno –, è partito un secondo filone di commenti sarcastici nei miei confronti proprio per l’uso della parola altrovità. Come se inventare una parola fosse disdicevole, come se avessi violato qualche oscura legge del cosmo linguistico facendolo. Che c’è di male, ho replicato io? È sbagliatissimo!, mi è stato risposto. La parola non serve, non si capisce, aggiunge oscurità alla lingua, non abbiamo bisogno di coniare nuovi termini (evidentemente, secondo questi soggetti, abbiamo già tutte le parole che ci servono).
Una volta di più mi sono stupita per un atteggiamento che, purtroppo, incontro spesso: un vero e proprio rifiuto della creatività linguistica, come se una parola nuova andasse contro l’ordine naturale delle cose. Eppure, creare parole è un’attività meravigliosamente e squisitamente umana: l’essere umano, come scrisse il linguista Bruno Migliorini nel 1975, è onomaturgo, cioè inventore di termini nuovi, per definizione e per vocazione. Poffare, anche lui aveva espresso questo concetto inventando un neologismo! Poi, è chiaro che non tutte le parole possono aspirare a entrare nel vocabolario, a diventare quindi effettivamente neologismi: questo importante passo lo faranno solo quelle usate per un periodo sufficientemente lungo di tempo, da una parte sufficientemente grande della comunità dei e delle parlanti, possibilmente in contesti diversi. Onomaturgo ce l’ha fatta; altrovità, al momento, no: ma questo non toglie che abbiamo tutto il diritto di inventare parole, perché fa parte della natura umana farlo.
Tutta questa tiritera non per parlare di altrovità, né di onomaturgo, ma della parola che invece indica chi professa questo per me misterioso odio nei confronti delle novità, che siano cose, concetti o parole: misoneista. L’aggettivo deriva dal termine misoneismo, a sua volta composto dal greco mîsos ‘odio’, da néos ‘nuovo’ e dal suffisso -ismo; la prima occorrenza del termine in italiano risale al 1885, quella dell’aggettivo corrispondente al 1894. Un suo possibile sinonimo è neòfobo/neòfoba. Ma, mi chiedo io: c’è davvero qualche utilità a essere persone misoneiste e neòfobe? Io continuo a pensare che il cambiamento, sia dentro alla lingua sia fuori da essa, sia sinonimo di vita. Preferisco essere filoneista o neòfila, cioè entusiasta – a volte fin troppo – di tutto ciò che è nuovo.
Di
| Il Mulino, 2021Di
| Carocci, 2017Di
| Bompiani, 2019Di
| Einaudi, 2019Di
| Newton Compton Editori, 2019Di
| effequ, 2021Di
| Einaudi, 2021Di
| Cesati, 2016Di
| Einaudi, 2024Di
| EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2021Di
| Il Margine (Trento), 2022Ti potrebbero interessare
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