Sei in macchina. Stai guidando lungo una strada; arrivi a un incrocio al quale hai la precedenza, ma l’automobile che avrebbe lo stop ti taglia la strada e ti costringe a una frenata. Inchiodi, non succede nulla, ma la tensione e il sollievo per il pericolo scampato ti fanno esplodere in un colorito epiteto nei confronti della persona alla guida dell’altro mezzo. E lo sappiamo: di solito, tale epiteto rientrerà nel campo semantico degli escrementi, o magari in quello del meretricio. Quando ci colgono alla sprovvista, e l’offesa all’individuo sconosciuto ci erompe dal petto senza troppi preamboli, non manifestiamo particolare creatività nell’insulto.
Tutto questo è comprensibile, ma è tanto limitante: le parole che esistono sono numerose, in numero infinitamente maggiore di quelle che impieghiamo nel nostro quotidiano. Tullio De Mauro, nel suo libro Guida all’uso delle parole, spiega come, nella vita di tutti i giorni, ce la possiamo cavare con circa settemila parole, e che i nostri discorsi “comuni” sono, al 90% composti dalle stesse duemila parole. E sì che un buon vocabolario, come potrebbe essere uno Zingarelli, ne contiene all’incirca 145.000. Insomma, usiamo solo una minima parte del lessico a nostra disposizione, anche se, non si può negare, nell’ambito della coprolalia, ossia delle parole ingiuriose o, addirittura, delle bestemmie, molte regioni d’Italia si distinguono per creatività.
la parola del mese è filibustiere
Scrivere ci espone al rischio della paralisi. Sappiamo bene di che vogliamo parlare, a chi, perché. Ma per la testa ci girano tutte le scelte possibili, tutti i possibili inizi. Ne buttiamo giù uno. Lo guardiamo. Non ci piace. Cancelliamo. Potremmo dire in un altro modo. Anzi, in un altro, e in un altro, e in un altro ancora. La pagina resta bianca.
Torniamo alla scena iniziale: molti anni fa, ero in macchina con mio papà, oggi ultrasettantenne professore universitario in pensione (insegnava una materia arcana: filologia ugrofinnica). Ora, occorre sapere che mio papà parla una pletora di lingue, e che ha un lessico molto variegato. In più, essendo veneto, diciamo che non le manda a dire. A un certo punto, un’automobile ci taglia la strada. Mio padre frena, suona il clacson e poi, all’indirizzo del tizio al volante dell’altra macchina, erompe in un FILIBUSTIERE! Urlato fuori dal finestrino. Capite? Filibustiere. Che bella parola, da usare come insulto. Altro che i volgari, dozzinali riferimenti alla cacca o alle madri di coloro che vogliamo insultare (offese, queste ultime, di matrice fortemente patriarcale, come ci insegna la sociologa Graziella Priulla).
Dallo spagnolo filibustero, che a sua volta deriva dal neerlandese vrijbuiter “libero cacciatore di bottino”, composto di vrij 'libero' e buit 'bottino', filibustiere è attestato in italiano dal 1772. Ha due significati: 'corsaro', certo, ma figurativamente anche 'avventuriero senza scrupoli, mascalzone'. Un ottimo spunto per un epiteto un po’ diverso dal solito (ed esiste anche la versione femminile: filibustiera).
Da oggi, più creatività anche negli insulti!
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