Glenn Miller è entrato nella storia grazie a una ballad intitolata “Moonlight serenade”, ma la canzone della sua vita avrebbe forse potuto intitolarsi “Friendly fire”.
Al fuoco amico, Miller era abituato sin da quando la sua personalissima ricetta di un jazz largo, sinfonico, centrato essenzialmente sulle armonie a scapito dei ritmi frenetici di gran moda all'epoca, era entrato nel mirino dei puristi di "Downbeat" e di altre autorevoli testate di settore.
“It don’t mean a thing if it ain’t got that swing!” – non significa nulla se non ha quello swing – era il motto del momento. Il brano-manifesto di Duke Ellington fotografava molto bene l’imperativo cui dovevano conformarsi tutte le band che passavano da una ballroom a un jazz club.
Ma Glenn Miller non era tipo da lasciarsi dire come suonare o non suonare: e la sua idea di suono si sarebbe fatta strada nei cuori di molti - moltissimi - ascoltatori, sulla East Coast che ne decretò il successo come pure nel resto del mondo.
Questo LP riunisce alcuni dei suoi più grandi successi tra cui “In the Mood”, “Moonlight Serenade”,“Chattanooga Choo Choo”, “American Patrol” e “Tuxedo Junction”.
Nato il primo marzo del 1904, il ragazzo aveva studiato alla high school di Boulder, in Colorado.
Studi accidentati e destinati a non arrivare a compimento: la musica lo distrasse sin da subito, non riuscendo a impedirgli solamente di essere nominato miglior giocatore di fascia sinistra del 1921 e di venir designato come direttore del magazine scolastico.
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Ma allo stesso modo in cui il trombonista in erba si era preso d’imperio una “N” in più (registrato all’anagrafe come “Glen”, cominciò a firmarsi “Glenn” nel periodo in cui era responsabile del giornale scolastico), il nostro si rese ben presto conto di non aver tempo da perdere, e con una determinazione che sarebbe stata la sua forza di bandleader, decise di provare a spiccare il volo. A modo suo.
Dal 1928 fino al 1936, Miller si fece le ossa come musicista freelance e quella del session man fu una scuola preziosa, perché gli permise di conoscere moltissimi strumentisti delle band migliori su piazza, lasciando in forno a lievitare un’idea di sound che avrebbe preso definitivamente forma qualche anno dopo.
Miller sciolse la sua prima orchestra nel 1938, solo per formarne una nuova di zecca immediatamente dopo.
Sarebbe stata questa seconda band a trovare la pentola d'oro in fondo all'arcobaleno, quel suono profondamente sedimentato nella coscienza musicale del secondo Novecento.
Gunther Schuller, grande storico del jazz, non lesina i superlativi, quanto al sound distintivo dell'orchestra: "È difficile pensare a qualcuno con un suono tanto unico"
La ricetta della torta Miller? bè, l'ingrediente principale era sicuramente il clarinetto che intonava la melodia (non è un caso se alcune delle scene più belle dei film di Woody Allen sono sottolineate da pezzi come "Moonlight serenade", essendo anche il regista e attore clarinettista jazz di vaglia).
La melodia doveva essere doppiata, un'ottava più in basso, da un sax tenore, contornato a sua volta da altri sax a rinforzare l'armonia.
"Una banda deve avere un suono tutto suo", come disse una volta il trombonista in persona.
E il suono, quella band, l’aveva. Eccome, se lo aveva!
Si sparse la voce di questo formidabile ensemble che sprigionava un sound capace di far muovere il piede anche ai sassi. Chi
L'orchestra cominciò a turbinare come una trottola fra ballrooms e casinò.
Non c’era sala della East Coast in cui non corresse voce che di lì a poco sarebbero arrivati Miller e i suoi a seminare un gioioso scompiglio a suon di slide trombone, walking basses e accenti ballabili.
Sì, lo swing dell'orchestra di Glenn Miller forse non sarà stato that swing che altri bandleader avevano imposto come canone alla moda musicale del momento, ma certo era potente, ricco in armonia e ritmicamente fresco. Non che ci fosse bisogno di molto altro, no?
In queste analisi, Schuller conferma ancora una volta la sua straordinaria conoscenza delle peculiarità di linguaggio di ciascuno strumento e l'abituale chiarezza nel mettere a fuoco le personalità e poetiche dei vari musicisti.
Perfezionista all’estremo, Miller badava più al modo in cui la sua musica veniva recepita dal pubblico di quanto non tenesse al giudizio dei critici. Le sue tantissime hit rappresentarono alle orecchie di milioni di ascoltatori e appassionati di jazz, l’epitome dello swing di quegli anni ruggenti, e restano ancora oggi a formare un’ideale istantanea che ben fotografa il mood del periodo.
Chattanooga Choo Choo, (I’ve got a Gal in) Kalamazoo, A string of pearls e Little Brown Jug sono alcune fra le tante perle di una collana che è bello sgranare ancora oggi, per quanto riesce a restituire un feeling spontaneo e gioioso (in realtà ottenuto attraverso un lavoro di certosina pazienza).
La vita e le opere del grande trombonista, compositore e direttore d’orchestra, del suo amore per la donna che diverrà sua moglie, della sua tragica fine in un volo transatlantico abbattuto per errore durante la Seconda guerra mondiale.
Ma nel 1942 le sirene della guerra che infuriava in Europa si fecero più forti di qualsiasi assolo di trombone, e nell’autunno di quell'anno il nostro si arruolò.
“Vorrei dare un po’ più di cadenza al passo dei nostri bravi soldati”, scrisse Miller nella lettera motivazionale che inviò ai suoi ufficiali, “e poter infondere un po’ più di gioia nei loro cuori”.
Detto, fatto. Dall’ottobre ’42 al dicembre ’44 la all-star Army Air Force Band – un’orchestra di 42 elementi con un nucleo swingante di 19 musicisti a dettare le cadenze – avrebbe fatto sentire il proprio sound vibrante e vitale in mezzo a quel campo riarso che l’Europa stava diventando.
Il repertorio, eterogeneo e molto ampio, permise al bandleader di affinare ulteriormente le sue doti di arrangiatore.
Il 15 dicembre 1944 il Maggiore Glenn Miller prese posto su un aereo da combattimento destinato a trasvolare la Manica fra Londra e Parigi. Quel che accadde poco dopo il decollo sarebbe rimasto a lungo oggetto di illazioni, speculazioni e molte teorie fiorirono attorno al destino dell’equipaggio.
L’ipotesi più accreditata, oggi, vuole che ad abbattere l’aereo sul quale il celebre musicista stava prestando servizio sia stata una bomba sganciata da alta quota da un aereo inglese, che accidentalmente avrebbe colpito l'aereo alleato sul quale Miller e i suoi stavano volando.
Fuoco amico. Proprio come ai tempi di "Downbeat".
Stavolta, però, per Glenn non ci sarebbe stato nessun encore.
Miller era uscito dai radar per entrare nella leggenda.
A rinverdire il mito – comunque evergreen - di Miller arrivò nel 1953 il film The Glenn Miller story.
Un altro entertainer di primissimo ordine impersonava il musicista, nel biopic di Anthony Mann.
Era James Stewart che, oltre alla ragguardevole altezza e a un certo aplomb europeo nel modo di fare, aveva con Miller perlomeno un altro punto in comune: era un soldato e aveva combattuto in volo.
La Glenn Miller Orchestra avrebbe continuato a fare tournée anche dopo la scomparsa del suo fondatore e leader. Nessun fuoco amico avrebbe offuscato il semplice, condiviso piacere di una serenata al chiaro di luna.
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