Da sabato tutti parlano della ripetizione, a cinquant'anni di distanza, della scena della Guerra del Kippur (6-25 ottobre 1973).
Ovvero: da una parte Israele - una realtà politica percepita come invincibile, assolutamente inattaccabile - che torna a sperimentare la violabilità dei confini e dall’altra parte una capacità di azione degli Stati arabi (allora Siria e Egitto) di rovesciare (o almeno diminuire) il ricordo bruciante della sconfitta, meglio: della «rotta» (nel caso dell’Egitto) della «guerra dei 6 giorni» ((5-10 giugno 1967).
Ci sono analogie con quello che accade oggi. E ci sono, soprattutto, delle differenze.
Se si colgono solo le prime, infatti, non si comprende la profonda gravità della crisi attuale.
Le analogie sono presto dette: la violabilità dei propri confini, una disorganizzazione nel dispiegamento sul territorio della presenza dell’esercito, il mancato ascolto delle opinioni dell’esercito da parte dei politici. Questo vediamo, se osserviamo il campo dalla parte di Israele.
Il campo visto dal mondo arabo, invece, è diverso da allora.
Unica analogia con allora: l’azione, avvenuta apparentemente "di sorpresa".
Sono però cambiati radicalmente: gli attori militari, le forze che esprimono l’opinione pubblica. Soprattutto è cambiato il senso degli schieramenti.
Vuol dire che se, ora come allora, il mondo rimane bipolare, questa bipolarità è interscambiabile rispetto alle linee guida della politica e alle categorie culturali, ideologiche, economiche che fondano e danno un volto alle politiche: populismo, sovranismo e bipolarizzazione sociale profonda caratterizzano tutte e due gli schieramenti.
Perché è così rilevante sottolinearlo?
Perché quando si tratta di intervenire sul campo con lo scopo di avviare politiche che vadano in direzione di un superamento dei conflitti, anche quando si intraprendono percorsi che dichiarano di voler superare l’impasse, quegli atti, nella realtà, possono rivelarsi generativi di nuove egemonie di parte.
Il problema non si risolve dichiarando intenzioni (quello è l'ambito della propaganda) ma di proporre percorsi di azione in cui si dichiara perché si escludono alcuni attori, osi indica come includerli. Così facendo, vincolandoli.
Tutte le politiche che negli ultimi anni hanno riguardato progetti di pacificazione in Medio Oriente - e segnatamente in merito alla questione dei confini sicuri per Israele e di uno Stato per i palestinesi - alla fine non tengono conto che solo mediando si trovano soluzioni stabili.
Mediare vuol dire portare a un tavolo tutti gli attori e i loro protettori che agiscono pubblicamente da garanti.
In queste ore, molti dicono che al di là delle stragi, dell’uccisione di civili iniziata dai miliziani di Hamas e della reazione israeliana, che l’obiettivo dell’azione di Hamas, sostenuta dall’Iran, è la rimozione del “Patto di Abramo”. È probabile. Ma la domanda resta un'altra: ammesso che quelli siano i mandanti e quello l’obiettivo, chi governa gli scatti di nervi, o i giochetti a Risiko di Teheran?
Perché il vuoto di politica non è solo nella politica identitaria, sovranista e che si esprime anche nel progetto di riforma del governo Netanyahu, ma anche nella assoluta libertà di azione e di sostegno militare a quelli che si considerano "i propri". Un sostegno che parte da Teheran nell’assoluto silenzio di quelli che Teheran “rispetta”. Ovvero, e per fare qualche esempio: Pechino, Delhi e un po’ anche Mosca.
Di
| Einaudi, 2015Di
| Fazi, 2015Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Frilli, 2003Di
| Rizzoli, 2004Di
| Edizioni ETS, 2023Di
| Meltemi, 2023Di
| Laterza, 2008Ti potrebbero interessare
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