È il 22 settembre 1943, pomeriggio. Su a nord, dopo il caos dell’armistizio, i fascisti protetti dai tedeschi provano a dare corpo a un simulacro di stato: “Repubblica sociale”, la chiamano, ma è chiaro a tutti che si tratta di semplice paravento per gli invasori nazisti.
Anche il paesino di Palidoro, vicino Roma, è nominalmente parte di questo stato fantoccio. Solo che dei fascisti sembra non esserci traccia; il potere, e con esso il terrore, è rappresentato dai soldati della Fallschirmjäger Division, i paracadutisti della Luftwaffe. Gente che combatte, non che amministra. Stanno controllando del materiale bellico sequestrato per capire cosa farne, ma evidentemente qualcosa va storto. Che si tratti di un difetto, di una banale disattenzione o di altro, all’improvviso una bomba a mano esplode. Due paracadutisti morti, due feriti.
Per il comando tedesco non è accettabile che due membri di un corpo d’élite rimangano uccisi in un banale incidente di retrovia. Per i nazisti è un attentato. Deve esserlo. I parà, si diceva, sono gente che combatte, non che svolge indagini. Servono colpevoli, e servono subito.
Salvo Rosario Antonio D’acquisto, vicebrigadiere dei regi carabinieri in forza alla locale stazione della Benemerita, in quel momento è il rappresentante più alto in grado dello stato italiano. E a lui i tedeschi ordinano di indagare e scovare i colpevoli. In fretta.
Salvo è il classico prodotto di un ventennio di fascismo stanco e disilluso: napoletano, classe 1920, fa il ginnasio e studia canto. A diciott’anni si arruola volontario nei carabinieri, probabilmente perché l’Arma, per lui come per molti ragazzi del Sud, rappresenta la sicurezza di un lavoro. Ma è l’estate del 1939 e il mondo sta per esplodere. Viene mandato in Africa nel 1940, da dove rientra nel settembre 1942 con una ferita alla gamba e la malaria.
Quando arriva a Palidoro probabilmente crede, come molti, che almeno la sua, di guerra, sia finita. Invece il 22 settembre ‘43, a sera, i parà gli chiedono di trovare i banditi che hanno ucciso i loro commilitoni entro il mattino seguente, o sarà rappresaglia. Anche se i banditi non esistono, perché con ogni probabilità non si tratta di un attentato. Questo il vicebrigadiere d’Acquisto, dopo una notte passata a cercare qualche appiglio, lo fa presente ai tedeschi la mattina del 23 settembre. Ma non è la risposta che essi volevano. Così vengono rastrellati nei paraggi ventitré uomini e un ragazzino, e ventidue di loro vengono portati in campagna, a scavarsi la fossa.
Salvo d’Acquisto è con loro: i tedeschi vogliono che sia presente un membro dell’autorità italiana per poter legittimare l’esecuzione, e il vicebrigadiere, lì, è tutto quel che resta dello Stato italiano. Alcuni pensano che si tratti solo di terrorismo psicologico: l’occupazione è appena iniziata e si stenta a credere che saranno questi i metodi con cui i nazifascisti porteranno avanti la guerra.
Quando appare chiaro che i tedeschi faranno fuoco, Salvo d’Acquisto decide di agire. Fa un breve calcolo: se si trova il colpevole, 22 innocenti saranno liberi. Una proporzione favorevole, pensa. È così che il vicebrigadiere Salvo d’Acquisto fa un passo avanti e si autoaccusa dell’attentato che non c’è stato. È un gioco delle parti, evidentemente, a cui i parà, che si sono già spinti troppo oltre, non possono però più sottrarsi. Lasciano andare i rastrellati ed eseguono la sentenza.
Salvo d’Acquisto, dice la motivazione della medaglia d’oro al valor militare e alla memoria, «affrontava così – da solo – impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell'Arma».
«Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi», ricorda il Galileo di Brecht. Dopo la fine del conflitto un’Italia prostrata, confusa, spezzata da mesi di guerra civile, ha fame di molte cose. Anche di eroi. E il vicebrigadiere Salvo d’Acquisto è un eroe vero, uno dei pochi, tra i molti che ne avrebbero reclamato il titolo, a meritare questa definizione. Gli vengono tributati giusti onori, gli si intitolano scuole, piazze, e mentre gli italiani con orgoglio apprendono la lezione di quel giovane, della sua storia si fa corazza il sistema delle forze armate italiane, così bisognose, dopo la guerra, di rilegittimarsi.
Il vicebrigadiere diviene così una delle figure più famose della cosiddetta resistenza dei militari, che specie tra i loro gradi più bassi riuscirono a riscattare l’onore che molte delle più alte gerarchie avevano perduto nelle vergognose vicende dell’estate ‘43.
Esaltando questo e poche altre figure per molto tempo, a guerra finita, una certa memorialistica che diviene ben presto memoria pubblica, ha allargato le incredibili qualità umane di Salvo d’Acquisto all’immagine collettiva dell’Arma dei carabinieri e delle Forze Armate durante il conflitto, oscurando spesso una realtà di fatti e omissioni tutt’altro che eroica. La giusta esaltazione del sacrificio di d’Acquisto a livello pubblico è anche servita a “dimenticare” la fattiva collaborazione di tutte le forze armate, regi Carabinieri compresi, alle peggiori vergogne del fascismo: dalle azioni punitive in Africa Orientale Italiana ai rastrellamenti e le uccisioni in Grecia, nei Balcani e durante la sanguinosa campagna di Russia.
La luminosità del gesto di Salvo d’Acquisto, che oggi la chiesa cattolica è in predicato di santificare, non può e non deve essere così abbagliante da rendere invisibile la realtà di una storia complessa, spesso dolorosa, in cui a pochi eroi si affiancarono i molti che “eseguirono gli ordini”.
Oggi, a ottant’anni di distanza, proprio per onorare degnamente quel sacrificio, potrebbe essere il momento di fare piena luce e memoria anche di quelle pagine oscure per dare al paese, finalmente, una memoria viva.
Di
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