27-30 settembre 1943. A dar retta agli stereotipi ci sarebbe poco da raccontare: la violenza dell’esercito più disciplinato e organizzato del mondo contro una città troppo spesso liquidata come simbolo di caos e disorganizzazione. Sulla carta non c’è storia. Sulla carta. E invece Napoli, con le sue quattro giornate, la storia la scrive, la fa.
Quando l’8 settembre di ottant’anni fa l’establishment politico e militare italiano dimostra tutta la sua inconsistenza abbandonando il Paese in balia degli invasori tedeschi e della rivincita fascista, in Campania quello che avrebbe dovuto essere lo Stato dà prova di particolare, criminale, incompetenza, se non addirittura di codardia.
Molti alti ufficiali del Regio esercito semplicemente si danno alla fuga: i generali Riccardo Pentimalli e Ettore Deltetto, responsabili della difesa del napoletano, fuggono travestiti da civili all’approssimarsi dei nazisti, non prima, il secondo, di aver consegnato formalmente la città ai tedeschi.
Napoli nell’estate del 1943 è una città che ha già pagato un tributo sostanziale alla guerra fascista: più volte bombardata dagli alleati, l’8 settembre conta già più di venticinquemila vittime civili, uno dei bilanci più sanguinosi della guerra nel contesto italiano.
Il nuovo comandante militare della città, il colonnello della Wehrmacht Walter Scholl, cerca da subito di imporre un assoluto controllo su una popolazione già prostrata e priva di una figura di riferimento civile. Il 12 settembre viene decretato lo stato di assedio e Napoli diventa, nei fatti, fronte di guerra. Le truppe germaniche percepiscono la città come un nemico vinto ma non ancora domato: soprusi, provocazioni e scontri si susseguono, mentre tra i cittadini monta la rabbia. Le pattuglie tedesche cadono sempre più frequentemente in agguati tra i vicoli, mentre i rastrellamenti e le perquisizioni vengono impediti da donne e ragazzini che gettano oggetti dalle finestre.
Questi atti di guerriglia urbana rendono il clima in città pesante e pericoloso. Gli alleati, sbarcati in forze nella zona di Salerno, sono già abbastanza vicini da rendere nervosi i nazisti ma ancora troppo lontani per poter dare un aiuto concreto alla popolazione. In più, il neocostituito Comitato di Liberazione Nazionale è ancora troppo impegnato nella propria stessa organizzazione per poter fornire qualsiasi tipo di supporto. Napoli è sola, senza guida, in balìa degli occupanti tedeschi incattiviti dal sopraggiungere dell’offensiva alleata e dalla consapevolezza di avere l’ostilità aperta di quasi un milione di partenopei.
È in questo contesto che il 27 settembre un enorme rastrellamento in città, con più di ottomila persone fermate, fa esplodere la rabbia popolare. Primo a sollevarsi il quartiere del Vomero, in cui gli insorti prendono d’assalto il deposito di armi di Castel sant’Elmo per armare la resistenza. Il 28 la rivolta si estende, mentre i tedeschi cercano di soffocarla nel sangue. Gli scontri sono accaniti e coinvolgono direttamente i cittadini di molti quartieri.
Sono molti gli episodi singoli e collettivi che raccontano di quale straordinario moto popolare abbia risvegliato l’animo ribelle della città: dalla resistenza di donne e bambini che trasformano in un incubo i vicoli di Napoli per i reparti tedeschi a momenti di reazione collettiva scarsamente organizzata ma efficacissima. Tra essi la straordinaria lotta dei femminielli, gli omosessuali maschi che si prostituiscono nei bassi del centro storico, che con le armi in pugno difendono i propri quartieri cacciandone i soldati. Moltissimi sono gli scugnizzi, i ragazzi di strada che sono parte integrante dell’insurrezione non solo come portaordini ma come veri e propri membri di gruppi combattenti. Delle cinque medaglie al valor militare alla memoria che conquista Napoli in quegli scontri, tre sono di minorenni: Gennaro Capuozzo, 11 anni, Filippo Illuminato, 13 anni, Pasquale Formisano di 17. Una quarta medaglia va a Mario Menichini, soldato di leva che di anni ne ha appena diciotto.
È una rivolta senza capi militari, se non nelle fasi culminanti degli scontri, che ha la propria forza in una solidarietà diffusa tra la popolazione e la consapevolezza che l’unica speranza di riscatto è legata alla lotta contro il comune nemico.
Sono quattro giorni di scontri intensi, dal 27 al 30 settembre che passeranno alla storia come le quattro giornate di Napoli.
Alla fine il comando tedesco viene costretto a trattare direttamente coi rappresentanti degli insorti, un’umiliazione cocente per l’esercito tedesco che aveva avuto l’ordine da Berlino di ridurre la città «in cenere e fango». I tedeschi se ne vanno, non senza un ultimo strascico di violenza con bombardamenti dall’alto e violenze arbitrarie. Il primo di ottobre gli alleati entrano in una città libera e festante.
Le quattro giornate entrano così nell’immaginario collettivo grazie alla loro eccezionalità: Napoli è la prima città europea a ribellarsi apertamente all’occupazione nazista, per di più vincendo.
La lotta è portata avanti non da una solida organizzazione partigiana ma da un movimento semispontaneo che coinvolge tutti gli strati sociali e che ha come denominatore comune la volontà di farla finita con la violenza dell’invasore. Sulle barricate trovano posto rappresentanti di tutta la comunità popolare. È in particolare il ruolo avuto da chi solitamente subisce senza farla, la guerra, a colpire: donne, bambini, diversi, emarginati e molti di coloro che il nazismo avrebbe incasellato come asociali si conquistano la propria fetta di libertà attraverso lo scontro a viso aperto con una delle più formidabili macchine da guerra mai concepite.
Altri nel corso della guerra di Liberazione seguiranno l’esempio di Napoli ma quella della città del Vesuvio è un’esperienza unica di riscatto da parte di una realtà che nel proprio complesso, quasi per un moto emotivo, riesce a sfruttare il proprio territorio e le proprie caratteristiche materiali e umane per fare resistenza.
Non è una rivolta a sfondo direttamente politico nelle proprie motivazioni e nemmeno, a ben vedere, un episodio direttamente ascrivibile al doloroso fenomeno della guerra civile degli italiani: a Napoli nel settembre del 1943 non ci sono strutture del CLN sufficientemente organizzate e nemmeno, a ben vedere, una rappresentanza consistente dell’appena nato fascismo repubblicano. Quello di Napoli è un episodio che ha più a che fare col fenomeno che Eric J. Hobsbawn avrebbe inserito nella categoria del «ribellismo», un moto che parte da bisogni impellenti e concreti e che sfocia nell’attacco al potere costituito violento e cieco, rappresentato dai nazisti.
Proprio per questo suo carattere non facilmente incasellabile nei classici schemi del racconto resistenziale lo studio e il ricordo delle quattro giornate di Napoli possono oggi contribuire ad arricchire e ampliare la visione d’insieme della lotta di Liberazione e metterne in luce dei tratti fondamentali fino a oggi non sempre facilmente inquadrabili.
La Resistenza a Napoli, così come in molte altre realtà, non è riducibile a un’unica, per quanto nobile e alta, motivazione ideale. Napoli dimostra che la Resistenza si nutre sempre di mille rivoli di opposizione alla violenza dell’occupante e all’insensatezza del protrarsi di una guerra che si percepisce come estranea e ingiusta. Essa insegna oggi che la base di quello che si potrebbe definire «antifascismo dei sentimenti», slegato cioè dalle razionalizzazioni politiche spesso successive, è stato una molla potente non solo per lo sviluppo del movimento partigiano ma anche per la costruzione del profilo ideale del sistema di valori dell’Italia del dopoguerra. La ricerca del rispetto della pluralità e della diversità è imposta a madri e padri costituenti dalla realtà della Resistenza. L’immagine delle donne sulle barricate del Vomero inchioda, pur tra mille difficoltà, la neonata democrazia alla necessità di accordare a ognuno il diritto all’esistenza e alla rappresentanza. I femminielli, che difendono con le armi il loro diritto a esistere, rimangono un esempio non sminuibile della volontà di essere parte, pur nella diversità, di una società plurale, che deve riuscire a rappresentare e rappresentarsi attraverso ogni suo singolo componente, nessuno escluso.
Una lezione oggi più che mai utile, anzi, necessaria.
Di
| Guida, 2023Di
| Editori Riuniti Univ. Press, 2016Di
| 4Punte edizioni, 2023Di
| Laterza, 2016Di
| Bollati Boringhieri, 2005Di
| Bollati Boringhieri, 2023Di
| Bollati Boringhieri, 2006Di
| Einaudi, 2022Ti potrebbero interessare
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