Riflettere oggi su Edward Said significa non ridurlo a homo unius libri (il riferimento è a Orientalismo, il suo libro concettuale più radicale) bensì proporre l’inquietudine che da quel libro discende come una chiave culturale. Mi spiego.
Uno degli scopi principali di quel libro è capire come si forma, ma soprattutto, cosa rimane, alla data di oggi del dispiegarsi della forza di una cultura che legge l’Oriente come privo di personalità in termini di profondità, società, origini e tradizioni.
Forse per molti, questa condizione appare superata perché «oriente» si presenta come nuova forza (Cina, ma anche India), un timore o una «paura» già vissuta nell’estate 1900 (il riferimento è alla rivolta dei Boxer in Cina) a cui l’Occidente risponde con la prima forma di coalizione internazionale volta al ristabilimento del proprio ordine che sente minacciato.
Quell’immagine fissa un canone e stabilisce una separazione tra Europa e Oriente, separazione che crea un’opposizione tra questi due mondi messi, inevitabilmente, in un preciso rapporto gerarchico.
Di conseguenza arrivano i cliché. I quali, a loro volta, si trasformano in giudizi: da una parte gli orientali: ingenui, vezzi all’adulazione e alla calunnia, privi di iniziativa, insensibili nei confronti degli animali e mentitori incalliti. Dall’altra gli occidentali: brillanti, schietti, laboriosi e virtuosi.
Muovendo dall'accezione più ampia del termine - orientalismo come insieme delle discipline accademiche che studiano usi, costumi, letteratura e storia dei popoli orientali - Said affronta l'idea della diversità ontologica tra Oriente e Occidente.
Potremmo pensare che questo doppio ritratto sia esagerato, parli di una cosa lontana da noi italiani. Ma forse potremmo anche chiederci: quanto parla alla nostra cultura quando metta a tema il Mezzogiorno o, più generalmente, la questione meridionale? Da questo lato potrebbe essere utile, recuperare, attraverso la sollecitazione di Said, la riflessione di Gaetano Salvemini.
Non solo.
Siamo proprio certi che orientalismo sia solo il codice dei grandi costruttori degli imperi coloniali o non sia, anche, un tratto culturale e mentale, di chi si sente naturalmente vocato al comando tanto da percepire le domande dal basso o dall’altrove, come minaccia al proprio potere?
Ovvero: Orientalismo quanto ci è utile, non solo per parlare di oriente, ma anche per capire l’immaginario che ha riempito il 17 settembre scorso il prato di Pontida o che ha popolato, tra il 21 e il 23 settembre scorsi, l’isola Tiberina per Atreju 2023?
E tuttavia, tornare a rileggere Said solo in relazione ai temi centrali di Orientalismo, credo sia limitato, e diciamo anche un po’ infingardo.
Said, anche come prosecuzione del percorso inaugurato con Orientalismo (un testo la cui prima edizione in lingua originale, in inglese, è del 1978) sviluppa molte altre piste di riflessione che sarebbe un errore tralasciare, smarrire o non ritrovare.
Qui ne propongo alcune.
Ripensando a come risolvere la questione israelo-palestinese, Edward Said nell’inverno 2003 (sarebbe morto pochi mesi dopo, il 25 settembre, vent’anni fa) chiudendo Umanesimo e critica democratica, l’ultima raccolta di scritti che organizza sentendo prossima la morte, scrive:
[...] la lotta palestinese non può essere semplicemente risolta con una ridefinizione tecnica dei confini che permetta ai palestinesi spossessati di ottenere il diritto (se si può parlare di diritti) di vivere su circa il 20 per cento del territorio del loro paese, porzione che risulterebbe totalmente circondata e dipendente da Israele. Né, d’altra parte sarebbe moralmente accettabile chiedere agli israeliani di ritirarsi da tutto il territorio della precedente Palestina, ora Israele, trasformandosi in rifugiati come i palestinesi. Per quanto abbia cercato uno sbocco a questa impasse, non sono stato in grado di trovarne, perché non si tratta di una semplice contrapposizione tra i diritti degli uni e degli altri. Non può essere giusto privare un intero popolo del suo paese e del suo retaggio. Anche gli ebrei rappresentano una di quelle comunità che ho definito «sofferenti» e portano con sé l’eredità di una grande tragedia.
È nel dissenso che l'avventura, l'interesse, la sfida della vita intellettuale vanno cercati. E se è vero che gli mancano regole stabilite alle quali ispirarsi per sapere cosa dire o fare, è altrettanto certo che l'intellettuale che non voglia tradire la sua missione non ha né cariche da difendere, né territori da consolidare o custodire.
E tuttavia proprio per trovare una sua funzione pubblica non come politico che ha la soluzione o a cui spetta il compito di agire per risolvere, ma come intellettuale pubblico che ha il compito di porre domande a un senso comune e ai luoghi comuni dell’opinione pubblica che credono di avere già tutte le risposte e dunque sono incapace di farsi problemi (e dunque, se ne deduce, anche di intraprendere la strada per risolverli), conclude che proprio come «intellettuale pubblico» riconosce come sua dimora quel campo di un’arte esigente, resistente e intransigente nella quale, ahimè, non si può trovare né rifugio né soluzione. «Solo da questo precario esilio – conclude – «si può davvero comprendere la difficoltà di ciò che non può essere compreso e andare avanti, facendo ancora un altro tentativo».
Anche per questo ha scritto Tony Judt in morte di Said, riprendendo il senso delle sue riflessioni ultime sulla questione israelo-palestinese, «Said non si identificò mai con il terrorismo, per quanto simpatizzasse con i sentimenti e le ragioni che lo muovevano. Perché i deboli devono servirsi di metodi che facciano sentire a disagio i loro oppressori, qualcosa che l’assassinio indiscriminato dei civili non riuscirà mai a ottenere».
Come La pace possibile, Umanesimo e critica democratica aveva, implicitamente, la funzione di «fare il punto». In questo secondo caso il tema era centrato sulla propria funzione: il mestiere di intellettuale. In prima battuta voleva dire descrivere la condizione in cui il mestiere o la funzione dell’intellettuale poteva esercitarsi. In seconda battuta si trattava di valutare come e in che firma si fosse intrapresa una strada di neonazionalismo culturale segnata soprattutto dalle discipline umanistiche.
Dunque si trattava prima di tutto di prendere la misura della trasformazione in corso.
Quel libro nasceva da un ciclo di conferenze tenute nel 2000. Ovvero da una modalità che si preoccupa di stabilire e «sentire» un rapporto con un pubblico. La sua prima preoccupazione, già prima della data fatidica 11 settembre 2001, consisteva nel prendere le misure appunto con il neonazionalismo culturale in corso. Un processo che a suo avviso era già in ascesa da un decennio, che per Said non era iniziato solo quando il primo dei due aerei «evira» la prima delle due Torri gemelle.
Il nuovo tempo inaugurato quel giorno, tuttavia, lo induce ad aggiungere un capitolo (l’ultimo testo che chiude il libro e per davvero stende in forma compiuta nel corso della sua chemioterapia tra fine 2002 e inizio 2003) dal titolo Il ruolo pubblico degli scrittori e degli intellettuali.
Quel testo per certi aspetti è la vera eredità da cui forse si devono prendere le mosse per risalire indietro per comprendere la macchina intellettuale, meglio il corpo di questioni che attraversano la sua complessiva produzione critico-teorica.
Dunque il ruolo dell’intellettuale.
In quel ciclo di conferenze Said aveva insistito a lungo sul rapporto verum/factum (da grande conoscitore del La scienza nuova di Vico) dove il tema non è tanto la descrizione oggettiva, ma il rapporto tra vissuto e racconto, tra ciò che costituisce il contesto e ciò che viene colto, osservato, memorizzato e poi raccontato nella comunicazione culturale. Da ultimo in ciò che si fissa in chi riprende in mano i grandi testi letterari. La loro lettura percepita, promossa e sollecitata dal grande circuito culturale di massa come opportunità per costruire una sensibilità del cittadino. Ovvero contribuire a costruire l’immaginario collettivo.
Terreno vasto, quello della letteratura universale che Said riprende in mano seguendo le orme di un altro grande storico della letteratura, Erich Auerbach, che non a caso ricorda in questo suo ultimo ciclo di conferenze, non solo per la sue riflessioni su Dante, ma soprattutto per le pagine di Mimesis, un testo che, a suo avviso, ha una grande funzione: provare a ricostruire un vocabolario – di parole, immagini, sentimenti, emozioni – fondato sull’inclusione e non sull’interdizione.
È il criterio su cui, dieci anni prima di queste sue conferenze, nel 1993, Said si era concentrato nelle sue trasmissioni radiofoniche intorno al ruolo degli intellettuali.
Said tiene quelle conferenze alla fine di un ciclo. La tendenza egemone non è avere una dimensione pubblica di protesta, ma rivendicare il ritiro nel privato, il ritorno a casa come virtù dell’intellettuale del nuovo secolo contro l’icona dell’intellettuale impegnato che a lungo ha segnato il Novecento.
Che cosa sostiene Said? L’intellettuale non deve creare consenso, deve porre problemi. «L’intellettuale – scrive Said – non ha il compito di mettere il pubblico a suo agio: ciò che importa è provocare, contrastare, a costo di risultare spiacevoli».
Poco prima aveva sottolineato come la prima cosa che un intellettuale deve fare è «non lasciarsi cooptare da governi o imprese». Ovvero «trovare la propria ragion d’essere nel fatto di rappresentare persone e le istanze che solitamente sono dimenticate oppure censurate». E ciò in quanto il modo di agire dell’intellettuale si fonda su principi universali: «tutti gli esseri umani hanno il diritto di aspettarsi dai poteri secolari e dallo stato modelli di comportamento dignitosi in fatto di libertà e giustizia: la violazione deliberata di tale diritto va denunciata e combattuta con coraggio».
Questo non significa farne un estraneo. L’intellettuale parla nella lingua nazionale, significa che rappresenta istanze o questioni universali o che rispondono a una parola chiave di tipo universale, ma poi deve parlare dentro un codice nazionale. In questo senso non esiste più un intellettuale cosmopolita. Questa sua dimensione segna la sconfitta della possibilità di agire su un’opinione pubblica. In questo senso la propria dimensione universalistica deve coabitare con la sua specificità nazionale.
E aggiunge. Questo aspetto riguarda anche il processo di revoca o di ripensamento, comunque di cambio radicale nella propria collocazione politica. Un’esperienza che, come sappiamo, non è marginale nella storia del Novecento. A questo proposito è significativo ciò che Said scrive a proposito della parabola raccontata nel Dio che è fallito. Un libro che indica sia che «la battaglia per l’intelligenza si sia trasformata in una battaglia per l’anima», sia un problema lacerante nella fisionomia dell’esperienza intellettuale nel corso del Novecento.
Per questo, rileggere le testimonianze raccolte nel libro Il dio che è fallito ingenera sempre una nuova depressione. Viene spontaneo domandarsi: «come ha potuto un intellettuale credere in un Dio quale che fosse. E ancora: chi l’ha autorizzato a immaginare che la sua professione di fede, prima, e il successivo disincanto fossero tanto importanti?»
E conclude:
L’etica e i principi di un intellettuale non possono essere una sorta di scatola del cambio a tenuta stagna, che orienta pensiero e azione in una direzione unica e il cui motore si alimenta a un’unica fonte. L’intellettuale deve muoversi molto, avere uno spazio in cui stare e controbattere all’autorità, perché la muta acquiescenza costituisce una delle minacce più gravi alla vita intellettuale che non intenda prescindere dall’azione e dalla morale. (…) ricordarsi sempre che l’intellettuale ha la facoltà di scegliere se rappresentare attivamente la verità oppure lasciarsi passivamente guidare da un padrone o un’autorità. Per l’intellettuale laico, questi dèi sempre falliscono.
Certamente in queste note ci sono forti tratti autobiografici. Dentro e sotto c’è l’esperienza dell’esilio, la sua percezione di essere un outsider, o di essere sempre nel posto sbagliato come intitola la sua autobiografia in cui la condizione di marginalità, precisa, «che può apparire irresponsabile o impertinente, rende liberi dalla necessità di procede sempre con cautela per paura di mandare tutto all’aria». Tema su cui ci sarebbe molto da riflettere intorno a che cosa per davvero sia l’esilio (come scrive in un suo saggio del 1984, che forse meriterebbe una ristampa), e in che forme e in che modo questa condizione, materiale, ma anche mentale, abbia avuto un peso e svolto un ruolo nella riflessione culturale nel Novecento.
Tuttavia, a me sembra che in quel testo Said individui alcune questioni salienti in merito alla parabola pubblica dell’intellettuale che riguarda non solo lui, ma che restano in eredità a noi, oggi. Ora. Sono le sensazioni che accompagnano il vissuto degli intellettuali.
In sintesi: la questione del rapporto con il proprio ambiente; la propria condizione di “figura contro” che porta all’esperienza degli schieramenti politici estremi; il senso della sconfitta o dell’abiura o della solitudine. Queste tre diverse fisionomie mi sembra delineino il profilo di una storia del comportamento degli intellettuali nel corso del ‘900. Ma anche si consegnino a noi, oggi in questo 2023, in una condizione di orfanità di pensiero, quale mi sembra caratterizzare il nostro tempo presente, al massino capace di esprimere «stelline» o intellettuali autoriferiti che si «autopromuovono», ma non inquietudine.
Essere intellettuali e, soprattutto, proporsi di esercitare quella funzione è un’altra cosa.
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