La bellezza, la linearità e l’accessibilità del modo di parlare e ragionare del Professor Cassese si intuiscono sin dal momento in cui si presenta: “Sono Sabino Cassese professore universitario, già ministro del governo Ciampi e già giudice della Corte Costituzionale. Ho scritto un libro intitolato Intellettuali.
“Tutto ciò che può essere detto”, sosteneva Wittgenstein, “può essere detto chiaramente. Sul resto è meglio tacere”.
Una lezione che Cassese sembra aver fatto propria senza tentennamenti e che potrebbe rappresentare una filigrana nascosta all’intervista che il Professore ci ha concesso a proposito del suo ultimo libro. Un libro piccolo nelle dimensioni, Intellettuali, quanto denso di contenuti importanti, idee che spingono a una riflessione urgente su una figura il cui stato di salute è termometro sensibile della società in cui si trovano a operare e ad esistere.
Chi sono gli intellettuali oggi? Com'è cambiato il loro ruolo al tempo di internet? Contro l'epidemia dell'ignoranza e i suoi effetti negativi sulla società e sulla democrazia, un'analisi lucida e senza sconti a difesa del ruolo dell'intellettuale come critico essenziale nel «mercato delle idee».
“Tempi bui sia per gli intellettuali, sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare.”
A partire da questo incipit, si dipanano otto lucidi capitoli nel corso dei quali Cassese racconta il ruolo e il senso dell’azione dell’intellettuale, ripercorrendone fortune e cadute sin dal momento in cui il Manifeste des intellectuels - apparso il 14 gennaio 1898 sull’Aurore, per sostenere l’innocenza di Alfred Dreyfus – ha in qualche modo “messo su carta” la funzione pubblica dell’intellettuale. Fino ad arrivare ai giorni nostri, giorni segnati da una diffusa "fiducia acritica nell’oracolo elettronico di Google". Tra le pagine di questo libro ci imbatteremo in un inventario lucido e spassionato dei vizi dell’intellettuale (scetticismo, ideologismo, una certa alterigia), leggeremo un capitolo dedicato a I compiti degli intellettuali oggi. E il Professore renderà comprensibile a tutti che “gli intellettuali servono alla società perché informano, alimentano il dibattito pubblico, forniscono le coordinate concettuali.”
Per fare tutto questo ci voleva una personalità come quella di Cassese, una figura i cui titoli e incarichi professionali, dalla Normale di Pisa a Stanford, dall’Eni alla Funzione Pubblica, farebbero tremare le vene ai polsi a più di uno studente o intervistatore. Eppure, noi abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo e abbiamo voluto incontrarlo per un’intervista… nel corso della quale, sia detto per inciso, Cassese si è rivelato essere persona squisita e affabile, mossa da un sincero desiderio di rendere comprensibili le proprie idee a quante più persone possibile. E non sarebbe questo, in fondo, il preciso compito di ogni intellettuale?
Buongiorno, Professor Cassese. Ci racconta come mai si è sentito in dovere di scrivere, oggi, questo libro?
Ho scritto questo libro per tre motivi: primo, perché ci sono oggi mezzi nuovi di comunicazione - in particolare il web - che consentono a tutti di esprimersi e quindi in qualche modo tolgono il privilegio del pulpito all'intellettuale. Secondo motivo: siamo in un'epoca nella quale è diffusa l'opinione che uno vale uno, cioè in un'epoca nella quale non si riconosce il valore aggiunto dell'intellettuale. Il terzo motivo riguarda il concetto stesso di democrazia, intesa come decisione collettiva. Ora la decisione collettiva, per così dire one shot, in un colpo solo, per esempio il referendum, fa passare in secondo piano tutto ciò che si chiama dibattito, l'utilizzo dello spazio pubblico nel quale ovviamente l'intellettuale aveva un ruolo molto importante… quindi bisogna misurare la figura dell'intellettuale anche con questo cambiamento e con il perdurare di un ruolo dell'intellettuale riconosciuto dalla collettività.
Questi sono i tre motivi di fondo che mi hanno indotto a scrivere queste riflessioni.
Nell'introduzione al suo libro parla del trionfo degli apedeuti: chi sono? e perché godono di tanto successo, oggi?
Apedeuta è un'espressione di origine greca che risale ad un uso che ne hanno fatto i francesi. Apedeuti sono quelli che non sanno e che, allo stesso tempo, si pongono allo stesso livello di chi sa, ignorando però le cose più elementari. Faccio un esempio: se manca l'elettricità in casa e noi non riusciamo a riattaccare l'elettricità e ci rivolgiamo a un elettricista, vuol dire che noi riconosciamo il valore di questa competenza, così come se perde un rubinetto ci rivolgiamo a un idraulico. Allora, se riconosciamo la competenza in questi momenti, perché non dovremmo riconoscere la competenza quando si tratta di cose anche più importanti?
Se dovesse spiegare il ruolo dell’intellettuale nella società a chiunque guardi con sospetto alla parola stessa, come riassumerebbe il concetto?
Mi sembra semplice: i non-intellettuali decidono, giudicano, valutano "a sentimento". L'intellettuale valuta, giudica, decide sulla base di dati, di conoscenze, fornisce evidenza empirica. I non-intellettuali parteggiano; l'intellettuale normalmente dubita. I non-intellettuali asseriscono; l'intellettuale argomenta, spiega. I non-intellettuali possono non essere interessati al dialogo, l'intellettuale invece sta al livello degli altri, cerca di comprenderli, cerca di spiegare agli altri se pensa di avere qualcosa in più da dire e cerca di fare in modo che "tutti siano intellettuali". Io ho una concezione dell'intellettuale aperta, come un'élite non elitista.
Per quale ragione, a suo avviso, noi italiani ancora guardiamo con diffidenza a quello che invece è un concetto che concorre alla vita civile di un Paese, nobilitandola?
Forse ci sono due motivi. Il primo, probabilmente, è un’assenza di propensione a dialogare, spiegare, cercare di convincere, quindi una certa alterigia e mancanza di umiltà da parte degli intellettuali. L'altro motivo è quest’idea del rifiuto della competenza che si è accompagnato alla diffusione del populismo. Un sentimento, questo, alla cui base però c'è anche un elemento positivo: il desiderio di essere liberi da qualcuno che si metta più in alto, su un piedistallo.
La posizione dell'intellettuale oggi è ancora più difficile perché deve far valere la sua conoscenza, la sua capacità di argomentare, introdurre il dubbio, un’esitazione rispetto a una società che invece tende a proclamare, ad affermare in maniera qualche volta anche un po' offensiva ed arrogante. Allo stesso tempo però l’intellettuale deve sempre essere pronto al dialogo e a esprimersi in modo chiaro cercando di stabilire una cosa fondamentale per la democrazia e cioè che se ci possono essere diversi punti di arrivo, i punti di partenza devono essere gli stessi. Per mettere tutti sullo stesso punto di partenza bisogna essere chiari e non si può avere un atteggiamento aristocratico e sprezzante.
Professor Cassese, come ciliegina sulla torta ha voglia di recitare la poesia di Prévert che riporta nel suo libro e che sembra condensare perfettamente lo spirito di quanto ci ha appena raccontato?
Non la posso recitare perché non la conosco a memoria! …eh sì, anche gli intellettuali non conoscono a memoria le poesie - ma sono pronto a spiegarne il senso e il valore. Prévert scrive che è necessario che gli intellettuali non giochino con i fiammiferi. E secondo me i motivi sono due: primo, perché con i fiammiferi ci si può bruciare. Secondo, perché con i fiammiferi si può appiccare il fuoco, quindi gli intellettuali possono danneggiare sé stessi, ma possono anche causare grave danno agli altri.
“Il rifiuto degli intellettuali da una parte e il loro silenzio (o la critica dell’intellettualismo) dall’altro, privano la società di un lievito essenziale, quello dell’opera intellettuale che promuove il mercato delle idee, coltiva la consapevolezza sociale della propria storia e rende meno asfittiche le proposte della politica”.
L’ha scritto così bene, nel suo libro, che non abbiamo altre parole per dirlo. Grazie, Professore!
Le nostre interviste
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I libri di Sabino Cassese
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| Mondadori, 2021Di
| Solferino, 2021Di
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