Se penso a Gabriel García Márquez mi viene in mente la penombra di un patio. Uno di quei cortili interni attorno a cui girano costruzioni dal sapore coloniale, abbelliti di amache, sedute impagliate, alberi e aiuole fiorite, dove è facile trovare scampo al caldo soffocante dei Caraibi.
C’è in effetti questa convivenza di sole e ombra in Gabo (come agli amici piaceva chiamarlo), nel suo modo di inventare, nelle storie che hanno irrigato gli immaginari di generazioni latino-americane e poi del mondo. Come se, sotto le atmosfere tropicali, esuberanti e vivide dei suoi libri si accampassero demoni antichi e malinconie.
Perciò se penso al perché Márquez stia in cima ai miei interessi letterari mi rispondo che c’entra, ma solo in parte, la bellezza della pagina: quella lingua rigogliosa su cui è cresciuto il mio desiderio di intimità con le parole. E poi ha senz’altro a che vedere con le immagini: Rebeca che arriva dai Buendía con le ossa dei genitori in un sacco; l’odore delle mandorle amare; il colonnello che ogni mattina, da quindici anni, all’ufficio postale aspetta la pensione; Sierva Maria azzannata da un cane con la rabbia; un amore impalpabile sopravvissuto “cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni”.
Dovrei però aggiungere alle prime due ragioni una terza, connessa alla penombra di cui parlavo: è una patina di amarezza che avvolge i luoghi, il presentimento della fine in mezzo alle cose quotidiane, le solitudini degli uomini, l’incapacità di legarsi agli altri.
Credo che tutta la mia vita e la mia letteratura sia servita a rispondere a un’unica domanda: cos’è la solitudine? (…) Il fatto è che se riuscissi a decifrarlo probabilmente non scriverei più
Sarà per questo che la sua scrittura incanta. Fittamente legata al passato, alle trame di luoghi mitici, alle genealogie che nei gangli del tempo raccontano riti e folclore di un popolo. Tenere memoria è l’intento dietro ogni riga dei suoi romanzi. Tanto che nell’autobiografia Vivere per raccontarla arriva a dire che «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».
Così Aracataca, paese della Colombia atlantica dove Márquez nacque il 6 marzo del 1927 – primo di sedici figli del telegrafista Gabriel Eligio García e della chiaroveggente Luisa Márquez Iguarán – finisce per riaffiorare in Macondo, l’inesistente villaggio che fa da sfondo a Cent’anni di solitudine e che poi, schiuso dall’immaginazione, diventa territorio dell’anima, geografia fantastica dell’umano, città-mondo.
Così il giorno in cui suo nonno, il colonnello liberale Nicolás Ricardo Márquez Mejía, lo accompagna nello stabilimento di una multinazionale a conoscere il ghiaccio, riecheggia nell’incipit memorabile di Cent’anni di solitudine.
Con questo romanzo tumultuoso che usa i toni della favola, sorretto da un linguaggio portentoso e da un'inarrestabile fantasia, Gabriel García Márquez ha saputo rifondare la realtà e, attraverso Macondo, il mitico villaggio sperduto fra le paludi, creare un vero e proprio paradigma dell'esistenza umana.
Così soprattutto i racconti, le credenze, le superstizioni con cui nonna Tranquilina – sempre abbigliata a lutto e in confidenza con i morti – affabulava la sua infanzia, escono dai nascondigli della memoria per popolare le pagine di libri più amati: da L’amore ai tempi del colera a L’autunno del patriarca, da Foglie morte a Dell’amore e di altri demoni, da Memoria delle mie puttane tristi fino all’ultimo Ci vediamo in agosto, riesumato dai figli e pubblicato un mese fa da Mondadori.
Premio Nobel per la letteratura nel 1982, Márquez ci ha ricordato che i Caraibi, la Colombia e per certi versi il mondo sono intelaiati di magia, che oltre la superficie delle cose ne esistono altre, non meno straordinarie, lasciate sottotraccia.
Prendere parola era per lui anche un atto politico. Da qui il giornalismo militante, la vicinanza a Fidel Castro e alla rivoluzione cubana, il sogno di un mondo socialista.
Nel 1973, quando la democrazia cilena viene sedata dal colpo di Stato del generale Pinochet, dichiara che non avrebbe scritto più finché la dittatura non fosse caduta. Pinochet ha mantenuto il potere vent’anni, Márquez – per fortuna – è tornato a scrivere molto prima. In un’intervista dell’87 confessava:
La vita di uno scrittore è anche piena di battaglie perse, quella l’ho persa. Arrivai alla conclusione che avrei fatto di più contro Pinochet scrivendo buoni libri che non scrivendoli. Mi ero sottoposto, senza rendermene conto, alla sua censura preventiva che mi ridusse al silenzio per quasi cinque anni
Anche se, dopotutto, la sua vera ideologia restava l’amore, percepito come sentimento ecumenico, che investe tutto, stravolge e, sì, rivoluziona.
Dieci anni fa, a Città del Messico, nella casa dove viveva insieme alla moglie Mercedes, che immagino costruita proprio intorno a uno di quei patii calmi, Gabriel García Márquez muore. Nella stessa intervista dell’87, quando il giornalista gli chiede se ha paura della morte, Márquez risponde: «Della morte no, del morire sì. Mi preoccupa, in quanto scrittore, che il fatto più importante della mia vita – morire – sia l’unico del quale non potrò mai scrivere.» Che incredibile magia sarebbe leggerne.
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