Passato di letture

Un castello di morti per un colpo di Stato di Francesco Lisanti

Sembrava tutto chiaro: la mattina del 17 maggio 1973, a Milano, l’anarchico Gianfranco Bertoli getta una bomba a mano contro la questura in via Fatebenefratelli, uccidendo quattro persone, mentre il premier Rumor e le altre autorità stanno uscendo dalla commemorazione del primo anniversario dell’omicidio del commissario Calabresi. Voleva vendicare Giuseppe Pinelli, dichiara. Sembrava tutto chiaro, invece era l’ennesima, sofisticata provocazione.

Un castello di morti per un colpo di Stato. Storia della strage alla Questura di Milano del 1973

Quella che sembra l’opera di un lupo solitario nasconde in realtà una fitta rete tessuta da numerose organizzazioni di estrema destra e dai Servizi segreti italiani e stranieri. Un intreccio di azioni terroristiche, interessi, coperture e depistaggi della pagina di storia italiana caratterizzata dalla “strategia della tensione”.

Ci sono voluti decenni per smascherare i retroscena dell’attentato e finalmente, in occasione del cinquantesimo anniversario, Francesco Lisanti ce li racconta per filo e per segno, a partire dall’imponente archivio creatosi nel corso delle inchieste e dei processi, e scandagliato con l’acribia propria dell’archivista, professione che svolge accanto alla ricerca storica (ha già firmato una ricognizione sulle carte dell’ultimo processo per la strage di piazza Fontana, L’Italia è su un sentiero di spine, pure edito da La vita felice).

Bertoli aveva militato nell’estrema destra dagli anni Cinquanta, e ai camerati della cricca di Ordine nuovo in Veneto a cui usava accompagnarsi, gravitante intorno allo stragista Carlo Maria Maggi, scappa da ridere quando, nel 1972, lui si professa anarchico. La strage alla Questura di Milano doveva inserirsi in uno sciame di attentati per creare un basso ostinato di allarme per la presunta minaccia anarco-comunista, a cui avrebbero risposto manifestazioni della Maggioranza silenziosa.

Servono bombe e «un castello di morti» per innescare il golpe sognato da una cricca eversiva ristretta ma bellicosa (l’ora x dovrebbe scoccare nel settembre del 1973, come in Cile). Ma qualche volta, come si dice, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Un altro attentato organizzato a fini di provocazione, il 7 aprile ’73, fallisce miseramente perché il neofascista Nico Azzi (che aveva cercato di farsi passare per uno di sinistra) fa un pasticcio con l’ordigno che sta cercando di piazzare su un treno, e viene smascherato subito, mentre una manifestazione della destra milanese, il 12 aprile, finisce con un poliziotto ammazzato – sempre a suon di bombe a mano – da due neofascisti, Loi e Murelli, alla faccia della retorica “legge e ordine”.

Dietro di loro, un tenente colonnello dell’intelligence militare, Amos Spiazzi, con la Rosa dei Venti e i Nuclei di difesa dello stato, ovvero quelle “reti” occulte tese tra il terrorismo nero e gli apparati d’informazione e sicurezza per attuare le scellerate strategie della “guerra non ortodossa”. Mirano a puntellare il depistaggio verso la pista anarchica nell’inchiesta su piazza Fontana (che già vacilla per il consolidarsi della “pista nera” veneta), per arginare l’avanzata delle sinistre e stabilizzare il quadro politico italiano in senso conservatore. Non sono “dietrologie”, ma pezzi di una ricostruzione ormai ampiamente documentata, seppur in modo lacunoso e incompleto (com’è logico, visto che si tratta di manovre anticostituzionali).

Ancor più sconcertanti gli scenari internazionali in cui si muove il sedicente anarchico, da Marsiglia, crocevia di traffici anche per la destra italiana e internazionale, ai mercenari che fan la spola tra l’Europa e le sue ex colonie, a Israele. Bertoli aveva vissuto in un kibbutz, aveva intrattenuto rapporti sia con servizi italiani, sia con quelli israeliani, il leggendario Mossad (che a sua volta offriva soggiorni di “formazione” ai nostri agenti). Lisanti spalanca una finestra su uno scenario d’incredibile complessità, che da quei quattro corpi rimasti sul marciapiede si allarga al gioco di equilibri complicatissimi dell’Italia nel teatro mediorientale, mentre maturano gli accordi – rimasti a lungo indicibili – volti a scongiurare attentati di terrorismo palestinese nel nostro Paese, che vanno sotto il nome di “lodo Moro”.  

La ricostruzione è ammorbidita dal tocco pop di scandire il libro a suon di citazioni attinte dal repertorio rock, quasi a sottolineare che tutta la vicenda ha un che di surreale: sembra un thriller internazionale o una serie tv, invece è semplice storia di casa nostra.

Abbinamento per buongustai

Eccellente l’accostamento con l’ottimo Il ‘lodo Moro’. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, di Valentine Lomellini.

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