Per lunghissimo tempo la guerra fu affare da scacchisti. L’antichissimo gioco era una sublimazione della foga guerriera e una sua fedele descrizione. Latitudine, longitudine, spazi da percorrere, contingenti da spostare. Avanzare per distruggere, imprigionare, o essere distrutti.
La guerra plasmò gli Stati come costrutti territoriali con confini definiti, stabili a sufficienza per essere difesi o, all’occorrenza, ritracciati. Sui confini i soldati, posti a guardia. Dietro gli altri, che col passar del tempo vennero chiamati significativamente “civili”.
Poi arrivò l’aereo.
Nella sua sconcertante attualità, questo saggio offre un contributo straordinario alla riflessione su democrazia, totalitarismo, colonialismo e globalizzazione, facendoci aprire gli occhi su complesse forme di sovranità che sfuggono sempre più alla nostra comprensione.
Lo sviluppo delle macchine volanti, appena un secolo fa, aggiunge l’altezza a un sistema fino a quel momento bidimensionale, cambiando tutto. I confini di colpo svaniscono e con essi le divisioni nelle società in guerra. Mentre le imponenti fortezze in cemento e acciaio poste a difesa della “civiltà” vengono scavalcate agilmente, chi sta dietro, i civili appunto, diventa bersaglio. E mentre il campo di battaglia si estende alle immensità celesti cambia, radicalmente, la filosofia stessa della guerra.
Il bel saggio di Thomas Hippler, Il governo del cielo (Bollati Boringhieri), ripercorre lo sviluppo dell’aviazione militare descrivendola dal punto di vista del pensiero che ne detta le mosse. Non una storia militare dell’aviazione, ma una storia sociale della distruzione dal cielo.
Il libro inizia con la testimonianza di Giulio Gavotti, giovane aviatore italiano che ha il triste primato di aver per primo fatto cadere una bomba da un aereo direttamente su un gruppo di non combattenti. Era il 1911 e le vittime erano appartenenti a una tribù libica che resisteva all’invasione italiana. Un’idea dalla terribile, evidente efficacia.
Da quel momento cambia il modo stesso di intendere quello che può essere definito un obiettivo di guerra legittimo: ciò che prima era un crimine diventa una condotta bellica lecita, saldando insieme l’apparato militare del nemico e la sua società in un tutt’uno da colpire e distruggere.
Come sottolinea con precisione l’autore, la svalutazione delle popolazioni nemiche da esseri umani a obiettivi avviene dapprima nel teatro coloniale, dove il razzismo imperialista vede già gli indigeni come massa informe di nemici biologici da sterminare. È la periferia del globo a preparare gli animi all’idea che vittoria non significhi prevalere, ma annientare.
Lo sviluppo esponenziale delle tecniche di distruzione aerea cambierà radicalmente il modo di intendere il conflitto: a meno di 40 anni dall’invenzione dell’aviazione la Seconda guerra mondiale registrerà un numero di civili uccisi doppio rispetto ai militari coinvolti nel conflitto; e da allora, a ogni guerra, la forbice non fa che allargarsi.
Non leggetelo se siete affezionati al mito degli “italiani brava gente”: in Italia venne letteralmente inventato il concetto di bombardamento terroristico, e sempre l’Italia tradusse in scala industriale l’uso dei bombardamenti a gas sulle popolazioni civili, durante l’invasione dell’Etiopia.
Non leggetelo se vi siete appassionati delle biografie dei “cavalieri dell’aria” in stile Barone Rosso: l’aviazione era, ed è, la più cinica delle armi della guerra moderna.
Non leggetelo se avete fatto i preparativi per celebrare il centenario dell’aeronautica italiana: potrebbe rovinarvi la festa.
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