«Ancora non sono riuscito a capire in fondo quello che ho fatto», confessa l’autore nell’Avvertenza che apre il volume. Doveva essere un saggio, o un’inchiesta giornalistica, magari di taglio narrativo, come altre da lui pubblicate (sul dopo-sisma nelle Marche e la protezione civile di Bertolaso), invece è diventato un oggetto ibrido, un “romanzo non-fiction” asciutto e coinvolgente, che si legge in un fiato.
Il caso Peci, un episodio del lungo, sanguinario e, a tratti, malinconico crepuscolo delle Brigate Rosse, ma anche la storia del magistrato che seguì le indagini. Questo libro prova a guardare a quella vicenda e a quegli anni con uno sguardo nuovo.
Si merita a buon diritto un posto tra i Passati di letture perché racconta, sulla scorta di atti giudiziari, carte private, resoconti giornalistici e testimonianze di chi c’era, «una storia vera incartata in un’altra storia vera». La storia, cioè, di Roberto Peci (fratello minore di Patrizio, primo grande pentito delle Brigate Rosse), che dopo una breve militanza in un’organizzazione satellite della cosiddetta lotta armata, si era sposato e sbarcava il lunario lavorando come antennista a San Benedetto del Tronto.
Aspettava una bimba quando, a 25 anni, il 10 giugno 1981, viene rapito, sottoposto a “processo proletario” e poi ammazzato dalle Brigate Rosse il 3 agosto (operazione documentata in super8, sinistra novità), per terrorizzare chi fosse tentato di “tradire”, come suo fratello, e insieme usare il ragazzo come megafono per una “verità alternativa” a quella di Patrizio, che gettasse ombre sulla genesi della collaborazione e i metodi del generale dalla Chiesa.
Storia che s’incastra con quella del procuratore Mario Mandrelli, incaricato di indagare sulla vicenda e sostenere la pubblica accusa al processo: il nonno materno da cui l’autore eredita il nome, di cui, da bambino, voleva a tutti i costi vedere la pistola chiusa in cassaforte. «Un vero duro», Mandrelli, nel ricordo dei colleghi e degli inquisiti, che qui si rivela invece essere stato un uomo schivo e inquieto, che amava dipingere, fumare mozziconi di sigaro e uscire da solo in barca, afflitto da emicranie e mal di schiena lancinanti che gli guastano perfino l’emozione a lungo attesa dell’arringa finale sul caso più importante della sua carriera.
Di Vito racconta l’ultima sanguinosa coda del terrorismo rosso, le dinamiche peculiari dei gruppi armati e della famigerata “area di contiguità” nelle realtà di provincia, i dilemmi posti dalla legge sui pentiti, la paura costante della vita sotto scorta – che comunque continua, tra le gelosie irragionevoli e conflitti domestici con la moglie Loreta, le cene in terrazza e le passeggiate in spiaggia. Perché Mario aveva preferito fare il pendolare e stipare la famiglia nel trilocale di un orrendo palazzone da boom edilizio, pur di potersi svegliare ogni mattina davanti al mare.
Su tutto incombe l’ombra di Giovanni Senzani, capo delle BR dopo l’arresto di Mario Moretti, personaggio inquietante che col sanguinario delitto Peci spacca l’organizzazione: criminologo, per anni consulente in contemporanea del ministero della Giustizia e delle Brigate rosse, coinvolto nei traffici d’armi con l’estero; più fonti attestano i suoi rapporti con i servizi segreti, in particolare con quel Sismi inquinato dalla P2 che gestisce le trattative con la camorra per liberare l’assessore DC Ciro Cirillo dalla “prigione del popolo” e depista clamorosamente l’inchiesta sulla strage di Bologna.
Un viaggio senza retorica in una provincia che assomiglia a quella cantata dai Baustelle e rappresenta, in fin dei conti, la maggior parte dell’Italia, capace di sottoporre a una «rimozione sfrontata» le pagine più contraddittorie e dolorose, al punto che alla fine «sembra che niente sia mai accaduto».
Per calarsi nei vissuti di chi fu chiamato a giudicare i terroristi, regalatevi il bellissimo romanzo Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (Sellerio, 2014).
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