«La maestria nella gestione di dialoghi e silenzi e di una scrittura ancora una volta ferma e delicata». - Ermanno Paccagnini, La Lettura
Manish va veloce. Manish ha sedici anni, i tratti che raccontano di un'origine all'incrocio di culture diverse. Manish ha occhi che dicono di un'intelligenza affilata ma anche di grande dolcezza.
Manish ha un papà fotografo di etnia Tamil e una mamma italiana, dermatologa. Manish, insomma, è un ragazzo di oggi.
Quella che Scianna porta a compimento con Senza dirlo a nessuno è una ideale trilogia dell'adolescenza che, mentre approfondisce con empatia e acume il mondo interiore dei ragazzi, riesce a raccontare molto anche degli adulti.
Già coi precedenti Cose più grandi di noi e Le api non vedono il rosso, Scianna (che i lettori di Maremosso conoscono per i suoi appassionati e intelligenti contributi pubblicati sul nostro magazine) aveva mostrato di saper fare tesoro della sua grande esperienza coi giovani (l'autore è un formatore che lavora spesso a contatto con i ragazzi), trovando un tono che è l'unico appropriato per raccontare dei loro turbamenti, delle aspettative e del rapporto con gli adulti: è una voce, quella di Scianna, che si pone più domande di quanto non si prefigga di dare risposte, e che proprio questa disposizione all'ascolto - senza pregiudizi, senza tesi precostituite da dimostrare con narrazioni costruite a tavolino - riesce a restituire credibilmente.
Il romanzo si apre con una telefonata inaspettata.
Chi ha dimestichezza con le storie ben raccontate lo sa bene: da una telefonata inattesa possono germogliare incroci inediti, occasioni da cogliere, agnizioni e riflessioni impreviste.
Da lì, da quella comunicazione data ai genitori di Manish dalla Polizia romana a proposito del coinvolgimento del ragazzo in una situazione poco chiara in un parco capitolino, mentre loro lo credono a Londra intento in tutt'altre occupazioni, si dipartono tracce e sottotracce di un romanzo che sembra orchestrato come un giallo, ma che non perde mai di vista la sua principale ragione narrativa: quella di indagare sulle forme che in un tempo com'è quello in cui viviamo può assumere l'avere sedici anni.
Senza dirlo a nessuno è un romanzo che incide nell'oggi grazie alla rara capacità del suo autore di raccontare relazioni e psicologie in perenne cambiamento e - contemporaneamente - di non mollare la presa su un disegno narrativo articolato e complesso: il ritmo incalza dalla prima all'ultima pagina, e noi lettori non possiamo fare a meno di leggere emozionandoci, riflettendo, imparando qualcosa di più su quel che oggi vuol dire crescere.
Come adolescenti o come adulti.
Buona lettura!
Dei Laura e Mauro citati nella dedica non ti chiederemo, e forse nemmeno della “parte che non abbiamo perso” (anche se la tentazione è forte). Ma del viaggio nella giungla proprio non possiamo fare a meno di chiedere. Era una giungla reale o metaforica, quella di cui parli?
Era un viaggio vero, nella giungla in Yucatan e in Chiapas.
Chilometri senza incontrare nessuno e rovine abbandonate. Eravamo giovanissimi, amici. Quando tutto era ancora possibile. C’è forse una metafora in questa dedica - perché nella giungla ci sono pericoli da affrontare e lì è facile perdersi - ma più che altro c’è un omaggio a Rudyard Kipling che con il suo Kim compare nel mio romanzo come una bussola.
… a proposito di giungla: i riti di passaggio delle tribù urbane non sono poi troppo diversi da quelli dei boscimani raccontati ne “Il viaggio dell’eroe” ispirato da Joseph Campbell, no? E il tuo libro, in fondo, ha qualcosa a che fare coi riti di passaggio. Oppure no?
La perdita d’innocenza, l’attraversamento della zona d’ombra per passare dall’adolescenza all’età adulta abitano spesso nei miei romanzi. Qui “il viaggio dell’eroe” ha inizio nelle zone ai margini della criminalità, nei parchi dello spaccio, nei colpi di testa che non calcolano le conseguenze delle proprie azioni.
Parliamo del protagonista di Senza dirlo a nessuno. Che tipo di ragazzo è Manish? Quali sono i suoi punti di forza? Quali, invece, le principali debolezze?
Manish è sveglio, se la cava sempre e sorride spesso. Manish però nasconde un lato oscuro e pensa che ridere sia una cosa difficile.
Insomma, a sedici anni deve ancora definirsi, costruire la sua personalità in rapporto con le ragazze, con i ragazzi, con due genitori separati, muovendosi dentro un’inchiesta più grande di lui.
E lo fa con calma, quasi surfando sulla fluidità che caratterizza la sua vita e quella di tanti ragazzi oggi.
L’adolescenza è il territorio d’indagine privilegiato dei tuoi romanzi. “L'adolescenza è l'epoca in cui si conquista a morsi l'esperienza”, sosteneva Jack London. È ancora così, a tuo avviso?
Sì. Credo che Stephen King in certe storie ce l’abbia fatto afferrare bene.
Cambiano i contesti, si declinano in modi diversi lo spirito di gruppo e i rapporti con gli adulti ma l’essenza profonda e misteriosa dell’adolescenza ha ancora a che fare con quei morsi di esperienza.
Cosa ti emoziona di più nel rapporto che intrattieni quotidianamente con i ragazzi?
Di solito incontro i ragazzi attraverso le storie, montando e smontando le vite, i dubbi e le scelte dei personaggi dei miei libri.
Le storie consentono di mettersi in gioco subito, di parlare di altre situazioni, di altri mondi parlando anche di sé. Mi emoziona provare a capire la realtà con i loro occhi, mi emoziona discutere senza giudizio, uscire cambiato da ogni incontro, muovermi insieme a loro in un territorio di frontiera dove un contatto tra adulti e ragazzi è possibile.
… e poi ci sono i padri che a volte sembrano più infantili dei figli: assenti, deboli, irresponsabili, oppure padri-padroni… negli ultimi anni, in particolar modo, i romanzi hanno cantato la scomparsa di un’autorevolezza sostituita, al massimo, da una autorità “vuota”. Ma come mai trovare un modello maschile che sia al tempo stesso adulto e responsabile ma non stolidamente normativo è diventato così difficile?
Beh, sono saltati i modelli di riferimento, i vecchi schemi di rapporti familiari sono in crisi da un bel po’ e così le fondamenta sulle quali costruire l’autorevolezza.
Essere adulti oggi richiede quindi una buona dose di improvvisazione. Certo: ci sono i padri assenti e i genitori che provano a fare resuscitare un’idea tossica di autorità, e poi è vero che molti di noi un po’ Peter Pan lo sono. Però c’è anche chi accetta la sfida di “esserci” comunque, cercando una via personale di educare il figlio. Di padri così ce ne sono. E Kirti, il padre di Manish nel romanzo, credo sia uno di questi: ha cresciuto un figlio vivendo con lui in una casa come due coinquilini - dove il ragazzo lo chiama Kirti e non papà - eppure è a suo modo un genitore attento e pieno di affetto.
Mi emoziona provare a capire la realtà con gli occhi dei ragazzi, mi emoziona discutere senza giudizio, uscire cambiato da ogni incontro, muovermi insieme a loro in un territorio di frontiera dove un contatto tra adulti e ragazzi è possibile.
E poi ci sono le madri: quella di Manish, per esempio, è una che proprio vuole andare a fondo nelle cose. Ce la presenti, per favore, raccontando a quale modello ti sei ispirato per darle forma?
È una donna che ha lasciato il figlio quando aveva sette anni separandosi dal marito.
Hanno continuato a vedersi, con Manish che da bambino partiva con il suo trolley per andare a trovare la madre a Genova.
Eppure, lei teme di non conoscerlo più nel momento in cui viene arrestato all’improvviso, e vive con senso di colpa il fatto di non averlo visto crescere ogni giorno. E così decide di non andarsene da Roma prima di avere scoperto in quale mistero Manish si è cacciato. Prova la sensazione che a volte il genitore di una famiglia spaccata prova: vive ogni giorno come una seconda possibilità per recuperare il tempo perduto.
Londra, Roma, Genova: un triangolo isoscele per raccontare di nuove forme di “famiglia diffusa” (o anche diasporata, per certi versi). C’è una ragione se hai scelto proprio questi vertici, per il triangolo che hai immaginato?
Londra è da sempre una destinazione dove molti giovani trascorrono un pezzo di vita, come ha fatto Barbara. Genova è appena accennata. Roma invece la volevo proprio, perché è una città che amo molto, anche se non è mai stata la mia città. La volevo così: torrida, svuotata e umida in pieno agosto, una zona franca che non appartiene a nessuno dei protagonisti, nella quale Barbara, Manish e Kirti si aggirano rifugiandosi nei parchi, provando passi nuovi per ritrovarsi.
La musica è un connettore fra diverse generazioni, nel romanzo. Ma è anche un fattore “identitario”, potente ed esclusivo. Come hai lavorato su questo aspetto?
La musica dà identità individuali e collettive, segna le demarcazioni tra generazioni. Qui tra i ragazzi come Manish prevale la Drill, sua madre e suo padre sono affezionati invece ai Linkin Park.
La musica è anche un ponte tra i paesi, tra Londra e Roma, tra i mondi e le culture. E alla fine la musica spiazza come fanno le canzoni di Rino Gaetano che fanno una comparsa imprevista nel romanzo.
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