Anniversari e Ricorrenze

Giovanni Gentile, a ottant'anni dalla morte del filosofo di regime

Illustrazione di Anna Da Pozzo, 2024, studentessa del Liceo artistico Volta di Pavia. Tecnica mista

Illustrazione di Anna Da Pozzo, 2024, studentessa del Liceo artistico Volta di Pavia. Tecnica mista

15 aprile 1944 sabato. La scena si svolge dalle parti di Villa Montalto, al Salviatino. Siamo a Fiesole sulle colline intorno a Firenze. Un commando attende l’arrivo di un’auto, una Fiat 1100. Su quell’auto viaggia Giovanni Gentile che sta tornando a casa dopo aver passato la mattinata alla Sede dell’Accademia d‘Italia, di cui è presidente, dopo il suo trasferimento da Roma a Firenze in seguito al crollo del regime e alle vicende dell’8 settembre 1943.

Alle ore 13,30 Fanciullacci si trova lì con un altro compagno davanti all'abitazione fiorentina del filosofo. Altri due gappisti attendono nei pressi con compiti di copertura. La macchina con Gentile arriva alla villa, un gappista si avvicina e chiede: "È lei Giovanni Gentile?", "Sì" risponde il filosofo: "Questo lo manda la giustizia popolare" e spara. Dell’attentato nell’immediato si dichiarano responsabili i Gap. E per tutti Bruno Fanciullacci (1919-1944) che poi catturato dai fascisti si ucciderà in carcere per non cedere alle torture e rivelare i particolari dell’attentato.

Alcune interpretazioni, anche recenti – per esempio Luciano Mecacci, nel suo La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile -  hanno ipotizzato che l'ordine dell'eliminazione di Gentile sia venuto dagli Alleati contro i quali aveva pronunciato infuocati discorsi e ai quali Radio Londra aveva risposto definendolo "arlecchino filosofo drappeggiato di croci uncinate" e incitando alla "...santa rabbia che animò il popolo italiano nelle sue ore più belle."

La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile

"Sono cose che ancora non si possono dire". Questa affermazione di Cesare Luporini, una delle teste pensanti del PCI nel secondo dopoguerra, risale a un'intervista radiofonica sull'"affaire Gentile" rilasciata nel 1989, a quasi cinquant'anni di distanza dai fatti. Bene, chi vive in Italia è abituato a delitti politici preparati, eseguiti e poi coperti in un'atmosfera acquitrinosa, dove nessuno per certo è innocente, ma un colpevole sicuro non esiste. Eppure, l'assassinio di Giovanni Gentile in quel freddo aprile del 1944 rimane un cold case diverso da tutti gli altri - che l'indagine di Luciano Mecacci, condotta anche su documenti inediti, riapre in modo clamoroso.

Nel 1985 storico Luciano Canfora - che nel suo La sentenza ha ricostruito con una grande accuratezza non solo documentaria ma anche filologica  la scena complessiva all’interno della quale avviene il delitto ma anche la gestione politica successiva delle voci  che su quel delitto girarono e furono messe in circolazione - afferma tra l’altro come elementi estremisti fascisti sapessero che il filosofo era in pericolo eppure non fecero niente per proteggerlo.

All’uscita del volume di Canfora fu Leonardo Sciascia, nella scheda che ne accompagnava la prima edizione (ora il testo di Sciascia è leggibile Leonardo Sciascia scrittore ed editore (Sellerio), il volume che raccoglie tutti i suoi interventi di accompagnamento ai volumi Sellerio) - a precisare che cosa ci sia in gioco una volta che si riapre il capitolo della morte di Giovanni Gentile.

Scrive Sciascia:

C'è qualcosa di peggio del non fare una rivoluzione o (a piacer vostro) del farla; ed è il farla a metà. Da una rivoluzione fatta a metà discendono tante delle cose italiane in cui penosamente oggi annaspiamo; ed emblematicamente, quasi a farsene simbolo, discende il caso Gentile. Non il semplice fatto dell'uccisione a Firenze, il 15 aprile 1944, del filosofo Giovanni Gentile, ma tutto quel gioco di rivelazioni, di confessioni, di rimozioni, di reticenze che su quel fatto, da allora ad oggi, è venuto succedendosi: al punto che lo si può paragonare a un palinsesto di difficoltosa lettura».
È probabile che l’LXXX anniversario dell’uccisione del filosofo Giovanni Gentile (15 aprile 1944) entri nel calendario civile pubblico e ufficiale della Repubblica italiana. Non sarebbe una sorpresa e premierebbe la costanza di chi in questi anni, a cominciare dai militanti di Casa Pound o da Jacopo Cellai, Vicecapogruppo Gruppo consiliare Fratelli d'Italia al Comune di Firenze, non hanno mai mancato di chiedere che Giovanni Gentile fosse ammesso nel museo italiano dei martiri. Forse rappresenterebbe il dato più significativo di una svolta che volta pagina di un sistema politico democratico che probabilmente manderebbe in soffitta la dizione “nato dalla Resistenza.

Non lo scrivo né con scandalo, né con sorpresa, né perché ritengo che la Resistenza sia stata un gesto inutile. Lo scrivo perché su quella storia noi oggi dobbiamo di nuovo tornare a interrogarci in merito a ciò che era, sulle parole di cui si nutrì, sui conti non fatti allora, sui molti miti che ne accompagnano il farsi, ma anche ne fondano la sua memorizzazione dopo.

Ha scritto alcuni anni fa Massimo Mastrogregori proprio riflettendo sulla monografia di Luciano Mecacci (in “Quaderni di Storia”, n, 81, 2015) che riprendere le misure con e rispetto a Giovanni Gentile significa farsi delle domande su come si valuti la lunga storia dell’Italia tra Risorgimento e Repubblica.

Osserva Mastrogregori che quelli da mettere a fuoco sono i suoi [di Giovanni Gentile] ultimi scritti, la concordia, la ricostruzione; la posizione – anche in alternativa a Mussolini, o con un Mussolini ridotto, rimpicciolito dall’esperienza di ostaggio dei tedeschi – di una continuità italiana Risorgimento-fascismo-ricostruzione. Continuità da eliminare, appunto, da escludere. Per sostituire ad essa, in senso rivoluzionario, la sequenza Risorgimento-fascismo-vuoto (morte della patria) - nuovo Risorgimento (Resistenza) oppure, nelle intenzioni di altri, la sequenza che dopo il vuoto (morte della patria) vede continuità, burocrazia, riorientamento tattico, amnistia.

Anche per questo è importate l’episodio della uccisione di Giovanni Gentile.

È probabile che in quel conto, non possano non entrare altri elementi. Ovvero il fatto che dentro un conflitto che aveva tratti profondi guerra civile (non solo, ma perché anche altre aspetti aveva la Resistenza come ha ricostruito e proposto Claudio Pavone nel suo Una guerra civile (Bollati Boringhieri), non conta solo chi materialmente compie un atto, ma come quell’atto possa assumere significato e letture distinte a seconda degli attori presenti sul campo che sono parte della scena.

Così non è improprio ritenere che a lungo il tema dell’uccisione di Gentile riguardi da molti lati – da quello dei diversi attori politici, sociali, culturali del cosmo resistenziale, come da quello saloino, come da quello degli Alleati anglo-americani - che cosa sia inteso come responsabilità politica dell’intellettuale nei contesti di divisione e di spaccatura di una società.

Così non può essere improprio che se da una parte - ovvero da quella parte che costruisce il profilo resistenziale, l’immagine di Giovanni Gentile sia quella consegnata alla memoria pubblica con le parole pronunciate nel suo discorso del 24 giugno 1943 nella sala Giulio Cesare in Campidoglio a Roma, pubblicato in versione integrale il giorno dopo da molti quotidiani [qui riprendo le sue parole da “Corriere della Sera”],è anche vero che le molte incertezze che ha, comunque il non entusiasmo per Salò pur aderendovi, non gli crea particolari legami con l’ambiente di Salò.

Nell’intervento del 24 giugno 1943 aveva detto nella parte conclusiva:

Gli italiani che domandano ogni giorno i conti – dice Giovanni Gentile avviandosi a trarre le conclusioni del suo discorso – che vogliono vedere freddamente come vanno le cose, che hanno qualcosa da dire su tutto quello che si fa, che si mettono insomma al di sopra degli avvenimenti, perché esercitare l’intelligenza è sempre un mettersi al di sopra delle cose e tirarsi fuori dall’azione, per fare la parte di spettatore che giudica senza compromettersi: questi falsi italiani devono aprire bene gli occhi e por mente che non è punto vero che essi non si compromettono e non agiscono. Essi compiono una loro azione, un’azione vile di devastazione delle energie morali del popolo che soffre e che combatte; essi assumono una tremenda responsabilità: la responsabilità del tradimento.

Dopo l’8 settembre 1943 la sua condizione di solitudine non si risolverà. Ma tuttavia la sua non sarà una ritirata. Giovanni Gentile, con convinzione o meno, oppure con una serie di distinguo che complessivamente tiene per sé, sceglie di giocare la sua partita all’interno di una parte precisa del campo.

Quando il 28 dicembre 1943 pubblica sul “Corriere della Sera” un intervento dal titolo Ricostruire, per affermare pubblicamente quella linea («avviare la Repubblica verso la pacificazione degli animi») Gentile fa appello alla «concordia degli animi», alla «cessazione delle lotte».

L’imperativo del momento – come è chiaro dal titolo – è, appunto, «ricostruire», l’effetto che ha quel testo nel mondo di Salò è molto freddo. Il 31 dicembre, su «La sera», Ugo Manunta redarguisce il filosofo con un articolo dal titolo: Ricostruire (ma senza compromessi). Il 2 gennaio 1944 «Il Regime fascista», il giornale di Farinacci, con un articolo di Corrado Zoli, che fa dell’ironia sullo scritto di Gentile.

Contemporaneamente Gentile non raccoglie attenzione dall’altra parte. E non la raccoglie perché non è un pacificatore.  Nel suo discorso all’Accademia d’Italia il 19 marzo 1944 ricordando il filosofo Vico nel mentre torna a invocare la cessazione della guerra civile, chiede «che non sia interrotta quella contro i sobillatori traditori, venduti o in buona fede, ma ebbri di sterminio». Sono queste le parole che pronuncia per descrivere i resistenti.

La sua morte è dunque quella di un uomo solo. Questa sua solitudine non  va interpretata come distacco dal regime, piuttosto come ha avuto modo di ricostruire con attenzione Alessandra Tarquini nel suo, Il Gentile dei fascisti (il Mulino): quella solitudine era stata pressoché una costante nel rapporto tra Gentile e il fascismo.

Fedele a Mussolini, era il Partito fascista che non aveva in simpatia verso Gentile fin dal tempo della riforma scolastica che porta il suo nome (1923) perché ciò che gli si rimproverava era «di negare al partito un ruolo decisivo nell’educazione delle giovani generazioni» (p. 317).

Ciò comunque non aveva portato Gentile fuori dal campo d’attrazione del regime.

Nella condizione della guerra civile, quella sua solitudine comunque stava dentro un campo d’attrazione. Non era, cioè, «equidistante» e soprattutto si colloca in quella distinzione fondamentale in politica tra moralismo e moralità. Giorgio Boatti all’uscita del libro di Mecacci in un lungo saggio pubblicato su “Doppiozero”, opportunamente aveva insistito su quella distinzione. La fonte di Boatti erano le parole del filosofo Antonio Banfi in tema di moralità in riferimento alle ambiguità di Giovanni Gentile nei mesi tra crollo del fascismo regine e la sua morte.

Aveva scritto Banfi, proprio in relazione alle parole pubbliche di Giovanni Gentile tra giugno 1943 e inizio 1944, in un testo dal titolo “Moralismo e moralità” (l’articolo poi uscirà nel giugno 1944 in apertura della rivista «Studi Filosofici» ed è ora leggibile nella raccolta degli scritti di Banfi dal titolo L’uomo copernicano (Mimesis):

 

Il moralismo, nonostante tutte le sue intenzioni pedagogiche, mira piuttosto a giudicare il mondo che a costruirlo moralmente; che anzi alla sua costruzione si oppone proprio con il suo astratto idealismo scettico, con il suo soggettivismo, col suo disprezzo per l’oggettività etica e la realtà umana

La moralità, invece, non è un’architettura astratta ma il lavoro quotidiano che, davanti alla “disarmonia etica” che ferisce l’individuo e la società, opera per partecipare e ricostruire insieme: «affermare libertà e giustizia in un mondo di schiavitù e ingiustizia significa moralmente non un atto di fede di un’anima bella che si ritrae dal mondo ma la volontà di un’attività concreta per cui da questo mondo – dalla sua estrema negatività vissuta e sofferta – deve sorgere libertà e giustizia, come feconde forme di vita».

Dentro questa visione morale la violenza, non più esclusivo tratto connotativo dello Stato che governa in modo esclusivo l’uso della forza ma terreno su cui si trova a procedere chi ha risposto all’appello della sua coscienza a liberare il Paese dall’invasore e dalla dittatura, trova la sua giustificazione: «Così nessun fine giustifica la violenza come mezzo e tanto meno la violenza si giustifica come fine a se stessa; ma la violenza – conclude Banfi nel suo saggio – può divenire forza costruttrice di un mondo, in cui si libera, si concreta e si estende la vita morale, e perciò assunta in questa e in questa illuminata».

La tesi fondamentale affermava come, di contro a un inerte atteggiamento moralistico che commisura sempre la precarietà e l'incertezza della prassi alla purezza degli ideali astratti, vera moralità fosse quella che assumeva in proprio il compito pratico di intervenire nella realtà, portandovi concretamente il peso della responsabilità”.

Non è un dato indifferente e quella distinzione ci riguarda ancora oggi, proprio in relazione alla discussione politica che ha come fondamento il futuro del patto politico fondativo della Repubblica.

In ogni caso molte sono le cose su cui vale la pena discutere, ammesso che la storia non è un derby.

Si può discutere molto della opportunità della decisione di uccidere Giovanni Gentile (sempre che si ritenga che i responsabili siano solo dalla parte dei resistenti), ma resta il fatto che quello che in Italia si stava giocando non era un “war game”. Era guerra per davvero.

E in quella guerra l’elemento delle scelte individuali, di schierarsi o astenersi non era un dato né indifferente né privo di significato. Quella responsabilità la ebbero tutti: sia chi si schierò con Salò, sia chi scelse la Resistenza, sia chi si schierò con il principio “Tengo famiglia e faccio i fatti miei”. Per ognuno e qualunque fosse la scelta quell’atto definiva un contratto e aveva dei rischi. In ogni caso non era incluso né durante, né “a posteriori” dire “Io non c’entro”, oppure “fatti loro”.

Poi si può discutere sulla lotta interiore che Giovanni Gentile vive tra estate 1943 e la decisione di aderire alla Repubblica Sociale italiana.

Questo se vogliamo capire un tempo, un contesto, i comportamenti.

Ma resta la domanda: perché quello scenario ci interessa, oggi? Non credo per passione antiquariale. Il problema al di là della discussione sul passato è quanto quel confronto sia funzionale a mettere sul tavolo le scelte di oggi. O meglio: l’agenda di oggi.

I temi e le sensibilità di quella guerra sono ancora parte del vocabolario e del fondamento della nostra vita pubblica? Devono essere ripensati? Se sì, in che modo?

I libri di Giovanni Gentile

L'attualismo

Di Giovanni Gentile | Bompiani, 2014

Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica

Di Giovanni Gentile | Vallecchi Firenze, 2020

Guerra e fede

Di Giovanni Gentile | Le Lettere, 2022

La filosofia di Marx

Di Giovanni Gentile | Le Lettere, 2003

Pensare l'Italia

Di Giovanni Gentile | Le Lettere, 2013

Patria, nazione, fascismo. Scritti di politica

Di Giovanni Gentile | Ugo Mursia Editore, 2021

Studi vichiani

Di Giovanni Gentile | Le Lettere, 2023

La riforma dell'educazione

Di Giovanni Gentile | Armando Editore, 2023

I libri su Giovanni Gentile

Giovanni Gentile

Di Daniela Coli | Il Mulino, 2004

La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile

Di Luciano Canfora | Sellerio Editore Palermo, 2013

La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile

Di Luciano Mecacci | Adelphi, 2014

Giovanni Gentile. La filosofia al Potere

Di Sergio Romano | Bompiani, 1984

Storia della cultura fascista

Di Alessandra Tarquini | Il Mulino, 2016

Giovanni Gentile. Una biografia

Di Gabriele Turi | UTET, 2006

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