Passeggio su Via Pontaccio. Anzi no, non è vero.
Cammino svelta e goffa su Via Pontaccio e somiglio più a una criminale che si nasconde nel buio che alla donna bella e misteriosa che pensavo di essere quando sono uscita di casa.
Sono lontanissima dai gaudenti del mercoledì sera, sembro di un’altra specie.
Che poi, a guardar bene, più che gaudenti sembrano in pace, sereni, grati ed increduli di essere a un tavolino a bere tra una pandemia e una guerra a due passi da qui.
Di nuovo, si sente un rumorosissimo silenzio di fondo fatto di frasi a mezza bocca e pensieri inquieti che potremmo raggruppare nel grande insieme "che ne sarà di noi".
Non penso non mi riguardi, anzi.
Sono solo momentaneamente concentrata su un dito rotto in un paio di sandali bellissimi ma scomodi, una giornata lunga sulle spalle e un Margarita che sa di malinconia e perplessità, ancora stabile sul palato.
Dieci giorni fa stavo bevendone un paio al retrogusto di festa e fraintendimenti linguistici da torre di Babele, mentre risale alla scorsa settimana uno che proprio Margarita non era - perché a base di mezcal - ma che mi ha portata in un mondo parallelo, anche se a un passo dal mio divano.
Su Via Pontaccio cerco un taxi sapendo che potrei girare in Solferino e andare alla fermata di largo Treves o continuare a camminare fino a Via Mercato, dove mi dispiace non ci sia più il negozio di costumi e accessori per carnevale.
Penso che tra il dire e il fare in questi giorni non ci sia troppa differenza purché quello che si dice o che si fa sia detto o fatto con coscienza.
Andare in palestra, a pranzo con l’amico del cuore, a pranzo con l’amica che non si vede abbastanza, a merenda con una persona che si vorrebbe conoscere meglio, si può.
Ritirare una poltrona restaurata, lasciarne due da rinnovare, ribattere un tatuaggio, sgridare i figli per il rapporto con l’ordine e lo studio, andare all’opera perché chissà quando ricapita, si deve.
Rispondere sempre ’si, grazie’ non si può e non si deve.
È tempo rubato allo studio, alla curiosità, alla scoperta, all’ascolto.
Rispondendo sempre ‘si, grazie’ si finisce nelle situazioni che ho descritte prima, parlando solo di noi stessi e senza muoverci di un passo da quelle che pensiamo essere le nostre certezze (ma che non lo sono).
Diventiamo incerti e imprecisi, le luci sulle nostre facce si spengono e tocca sperare in interlocutori o contesti brillanti abbastanza da non richiedere il nostro contributo.
E non esiste soluzione tanto vincente. A meno che non ci si accontenti.
Nella clausura forzata da guerra o malattia, penso che, alla lunga, a salvare sia quello che si sa, si fa o si ha intenzione di fare o scoprire. Perché il margarita aiuta, ma da solo non fa brillare, se non in senso bellico. Più facile che faccia esplodere lentamente e inviti i mostri, tutti insieme a banchettare sui nostri resti.
Fermo un tassista che - spegnendo la sigaretta - mi dice che dietro l’angolo c’è il posteggio.
Gli rispondo che le scarpe mi fanno male. Lungo la strada raccolgo il silenzio dell’anonimato mentre penso che per troppi anni ho puntato tutto sulle piante grasse, che manco dal cinema da tempo e che, in effetti, non ho cenato.
Ma penso anche che una serata a teatro vale un digiuno e lo sguardo bovino davanti all’armadio, mentre si sceglie cosa indossare.
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