Anche questa settimana ho preso troppi impegni.
Di nuovo mi sento come Indiana Jones che deve azionare il meccanismo giusto perché la trappola non lo schiacci.
Anche questa settimana dovrò rinunciare alla mia lezione preferita, rimandare alla prossima il pranzo che avevo già rimandato la settimana scorsa, il film che quando riuscirò ad andare al cinema non sarà più in sala e già so che da lunedì dovrò gestire gli appuntamenti a lungo termine che a un certo punto diventano - inevitabilmente - il presente.
Di nuovo, scoprirò che la settimana non ha sette giorni utili ma nemmeno cinque, perché due sono necessari per andare e tornare da Roma (o Bari, Palermo, Londra, Oz) dove lavorerò effettivamente sei ore e, nemmeno fosse la prima volta, sbatterò contro la realtà accorgendomi che in camerino il tempo morto è vivissimo e non lascia un attimo per fare in modo adeguato qualcosa che non sia stare immobile davanti allo specchio mentre Malika viene trasformata in Malika Ayane e che alla fine di una diretta/ performance/ intervista fiume, la testa è una specie di frittura e la sola cosa che desidero è abbandonarmi alle persone e alle situazioni intorno a me.
Ed è il momento che preferisco perché è quello uin cui prendo una sedia per Pres, che non mi ha mollato un attimo.
Nemmeno per andare alla toilette.
Stoner è un romanzo sull'amicizia, sul matrimonio, un romanzo di ambiente universitario, un romanzo sociale e – last but not least – un romanzo sulla fatica. Sul duro, implacabile lavoro nelle fattorie, sull'impegno che richiede la vita matrimoniale, sulla difficoltà di allevare con paziente empatia una figlia all'interno di una famiglia avvelenata, e sul tentativo di avvicinare alle meraviglie della letteratura studenti universitari spesso insensibili. Ma, al fondo, Stoner è soprattutto un romanzo sull'amore: sull'amore per la poesia, per la letteratura e anche sull'amore romantico.
Questa è la storia di una fame che non va mai via. E di Roberta, che vive cercando di non occupare spazio. A quasi trent'anni è bloccata in un lavoro senza senso. Un giorno conosce Stevie, è libera e pericolosa. Diventano amiche, vanno a vivere insieme. Poi inventano il Supper Club. Un collettivo di donne stanche di sentirsi dire che devono parlare meno, mangiare meno, costare meno, essere meno.
Pres, che non sta per presidente ma per Pressione, è un mostro molto affettuoso e, come un gatto, la domenica mattina adora sedersi sul mio stomaco e togliermi il respiro. È anche estremamente socievole: sempre con Insi quando provo un vestito, con Cindy quando sta per aprirsi il sipario e con Giudy quando premo il tasto play per una nuova canzone al primo ascolto di qualcuno la cui opinione ha un peso importante.
Ogni volta che arriva, si annuncia con un suono, quello dell’espirazione.
A volte sommesso, molto più spesso forte e duraturo, come un sospiro che a un’orecchio distratto sembra uno sbuffo.
Sarà per questo che non mi sono mai approcciata alla famosa pentola che porta il suo nome, ho il timore, complice la leggenda metropolitana, che il sibilo che si trasforma in soffio e poi in fischio anticipi un’esplosione. Come le sirene che in tempo di guerra annunciano le bombe. Eppure, per quanto siano di moda, gli efficientissimi robot da cucina non regalano gli stessi risultati in tema di prelibatezze culinarie.
Si tratta forse di saper resistere alla paura e aprire la valvola nel modo corretto e per tempo.
Ci penso appunto, ogni volta che in un camerino mi stanno trasformando da Malika in Malika Ayane.
Quando Pres mi salta sulle ginocchia e spinge con la testa appena sotto le costole provo a reagire accogliendolo, perché non arrivi a farmi male. Non lo spingo giù perché ogni volta in cui lo faccio devono ricominciare il trucco da capo e si aggiunge un altro elemento - quello della mancanza di tempo - a rendere il mio respiro più affannato e drammatiche le visioni di come starò sul palco. Una volta mi sono pure bruciata la faccia col ferro ed è stato solo l’inizio di una serata molto complicata.
Allora gli accarezzo la testa perché si ammansisca e gli racconto di quanto come tutti gli altri mostri sia un pezzo necessario per un puzzle perfetto. Bisogna solo riconoscerne la natura e non farsi schiacciare. A pensarci, anche una spremuta passa per il risultato di un’azione violenta, che però porta a un risultato delizioso.
In altre lingue la chiamano, appunto, pressione.
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