Lavorare in proprio ha qualcosa che mi ricorda la mia vita da studente.
Nei periodi in cui la banca mi chiama solo per assicurarsi che io abbia ricevuto la nuova carta, mi sento un po’ come quando – in questa stessa stagione – non solo ero in pari con le interrogazioni, ma addirittura ero riuscita a intortare i professori, ottenendo in questo modo una media più alta di quella che forse avrei meritato.
Potevo concedermi una giornata libera, ogni tanto, e stare in posti in cui non avrei dovuto essere, nell’ora del dovere: e invece c’ero, senza angoscia né senso di colpa, senza la preoccupazione di finire come uno dei troppi clochard che abitavano sotto i portici del centro.
Muovendosi a piedi si può vedere il cielo.
In certe giornate d’autunno è tanto azzurro che i forestieri, quelli che “a Milano è tutto grigio”, sono costretti a scendere tutti insieme in metropolitana, per non dover ammettere di essersi sbagliati. Passeggiando, sento addosso il cambiare delle stagioni. E succede nell’istante in cui mi accorgo che la giacca di renna avrei dovuto metterla una settimana fa mentre, chiudendo il trench con la cintura, gli do appuntamento alla prossima primavera.
In molti hanno provato a raccontare la vita di Billie Holiday – una vita travagliata, densa, sfuggente –, eppure, pochi ritratti hanno la forza e il fascino di questo storico graphic novel, firmato dai maestri del fumetto argentino José Muñoz e Carlos Sampayo
Dagli slums di Baltimora ai café society di New York, dagli studi di registrazione alle galere americane, dalla violenza del razzismo subìto all'affrancamento ottenuto attraverso il successo nel mondo dello spettacolo, dalle frequentazioni eccellenti all'inferno della dipendenza dalla droga, Billie Holiday insegue sempre un sogno di dignità umana
Un piede avanti all’altro, conquisto la mia Milano a testa alta, con le mani in tasca e le cuffie nelle orecchie.
Vent’anni fa avevo un Sony Discman e dopo qualche settimana avevo dovuto cambiare gli auricolari perché iniziavano a gracchiare.
Oggi ho delle cuffie Bluetooth che non amo granché e che mi fanno sembrare pazza quando le uso per telefonare. La musica esce dallo stesso strumento che uso per svegliarmi la mattina, contare i passi – sono convinta che siano numeri a caso, quelli che appaiono sul display – comprare scarpe americane e biglietti aerei.
La musica che ascolto, però, è la stessa di allora.
Non per l’affetto nostalgico con cui guardo alla ragazza che si accingeva a diventare maggiorenne in concomitanza col passaggio da lira a euro; semplicemente, è una musica che sposta l’aria nella stanza e cambia i colori di tutto quanto mi sta intorno. È una musica che si siede fra petto e stomaco e inizia a scavare lentamente, con strumenti di fortuna, come i bambini scavano buche coi cucchiai di plastica.
C’è chi dice sia questione di timbro. Io penso piuttosto sia una capacità quasi magica di raccogliere tutte le sensazioni esistenti al mondo e restituirle attraverso una combinazione perfetta di suono, parole e timbro.
Verso il passo numero 6349 inizio a percepire come anche oggi la magia abbia funzionato.
Me ne accordo precisamente alla parola heartache, come la prima volta e la seconda volta.
Come la prossima volta. Infatti, ecco spuntare da Via dell’Orso tre inseparabili moschettieri: i tre mostri che mi hanno accompagnato in ogni occasione importante della mia vita.
Insi (curezza) guida la fila perché in quel punto il marciapiede è particolarmente stretto, ma già intravedo Giudi (paura del giudizio), elegantissima dietro di lei, e naturalmente Sindy (o sindrome dell’impostore), che in quest'occasione si sente meno coinvolta e ciondola come una turista qualsiasi.
Mi aspettano e si uniscono alla mia passeggiata. Ci parliamo poco. Ci scambiamo qualche sguardo complice, poi puntiamo gli occhi in basso, perché dopo heartache c’è una valanga di parole e melodie che ci infilzano come pugnali. In questi vent’anni – anzi, ventuno – anche il posto in cui ci siamo conosciuti è sparito. Al suo posto oggi c’è un negozio di vestiti a basso costo.
Ma ci siamo noi e soprattutto c’è ancora Billie, che ai miei mostri mi ha presentata. Mi è stata accanto mentre imparavo a conoscerli, a riconoscerli, a non negarne l’esistenza e a non averne troppa paura. Chissà come si chiamavano i suoi, di mostri… forse uno era solitude, sì. Ma forse c’era anche hope, che è sicuramente un mostro perché c’è poco di più spaventoso di una speranza perduta.
E di questi ancora si continua a parlare, come si continua a parlare di lei perché le probabilità che una musica come la sua comparisse sulla terra erano talmente basse che non si spiega come sia potuto accadere che Billie Holiday abbia cantato davvero e lo abbia fatto così.
Altre MaliDizioni
Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone? Scrivi alla redazione!
Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente
Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente