La redazione segnala

A tutto volume!
Un racconto inedito di Rosario Pellecchia

Illustrazione digitale di Cecilia Viganò, 2023

Illustrazione digitale di Cecilia Viganò, 2023

Sono le nove di sera del 6 ottobre del 1924.

Nel piccolo appartamento al piano ammezzato all’interno della stazione di Roma San Filippo, con le pareti e il soffitto coperti da pesanti tende per attutire i rumori, i musicisti del quartetto d’archi sono pronti a eseguire l’Opera 7 di Franz Joseph Haydn.
Quando la signora Maria Luisa Boncompagni raggiunge il microfono gigantesco, detto a catafalco, posizionato poco più in là, non sono certi di sapere cos’è quell’aggeggio e, soprattutto, cosa sta per fare quella donna.
Il dubbio dura pochi secondi, poi Maria Luisa si schiarisce la voce e dice:

Unione Radiofonica Italiana, stazione di Roma Uno, trasmissione del concerto inaugurale

È la prima trasmissione radiofonica in Italia.

Due anni prima, a Londra, era stata fondata la BBC, la più antica radio del mondo.
La signora Boncompagni e gli annunciatori della BBC avrebbero fatto altro nella vita, se, a partire dal 1860, alcuni scienziati non avessero perso il sonno dietro strani esperimenti: James Maxwell e i suoi studi sul carattere ondulatorio della luce, dell'elettricità e del magnetismo; Heinrich Hertz, che per primo riuscì a produrre le onde elettromagnetiche; infine, Nikola Tesla e Guglielmo Marconi, che sulla base di queste scoperte, diedero inizio alla grande epopea della radio.

Molti anni dopo, un ragazzotto un po' sovrappeso con grossi occhiali da miope sta facendo i compiti, mentre, ingobbito sulla sua scrivania ricoperta di fòrmica marrone, cerca di resistere all’impulso di chiudere le palpebre.
È proprio mentre sta per cedere al sonno che qualcosa attira la sua attenzione: sente delle voci provenire dalla stanza accanto, un uomo e una donna chiacchierano, il ragazzo non riesce a distinguere cosa dicono, e così si alza, si avvicina alla porta socchiusa e la apre.

«Chi sono questi due che parlano?» – chiede.

Suo fratello maggiore lo guarda con tenerezza, come fa sempre quando il più piccolo della famiglia mostra di non conoscere qualcosa che per lui è assodata.

«È la radio» – dice sorridendo, mentre indica l’apparecchio che il loro papà ha scelto sul catalogo aziendale come regalo di Natale.

La risposta non lo soddisfa. 

«Ma perché lo fanno?»

Stavolta suo fratello ride di gusto.

«In che senso? È il loro lavoro.»

Il piccolo rimane lì impalato, la bocca semiaperta e lo sguardo smarrito dietro gli occhialoni.
Poi, di colpo, una folgorazione.

«Voglio fare questo, di lavoro, quando divento grande.» 

Credo fosse il 1982. Anzi, ne sono certo, anche perché quel ragazzo ero io.

Qualche anno dopo avrei iniziato a trasmettere in una piccola radio polverosa della mia città, poi in un’altra un po' più grande, infine in un network, dove a un certo punto avrebbero cominciato a darmi dei soldi in cambio di una cosa che, detto fra noi, avrei fatto anche gratis, per il resto della mia vita. In un secondo sono passati più di trent’anni, ed eccomi qua, le dita che battono sui tasti di un computer, mia figlia che dorme nell’altra stanza e la radio accesa, proprio come allora, mentre cerco di raccontarvi la mia lunghissima storia d’amore con questa meraviglia che ha cambiato la vita a me e a milioni di altre persone.

Non c’è niente come la radio, davvero: nessun altro mezzo di comunicazione è riuscito negli anni a essere altrettanto romantico, sovversivo, fantasioso. Così puntuale e immediato nel raccontare le cose del mondo, così generoso nei confronti del suo pubblico, così capace di accompagnare la vita delle persone senza mai costringerle ad avere tutto il quadro già composto, al contrario, chiedendo loro di aggiungere sempre qualcosa a quello che ascoltavano, di finire il lavoro, di usare la caratteristica che più di ogni altra ci rende unici su questo pianeta: l’immaginazione.

Attraverso la radio abbiamo imparato ad apprezzare la bellezza scintillante della musica, abbiamo appreso che era scoppiata la guerra e poi che era tornata la pace, abbiamo sentito che Paolo Rossi ci aveva fatto vincere i mondiali, che Aldo Moro era stato ritrovato dentro il baule di una macchina, che i Beatles erano più famosi di Gesù Cristo, che per Alfredino in fondo a quel pozzo non c’era più niente da fare. Che qualcuno aveva abbattuto due grattacieli a New York. Che un piccolo, stupido virus aveva deciso che dovevamo starcene chiusi dentro casa.

Nel frattempo è arrivato altro, strumenti che sembravano immensamente più potenti: la tv, la rete, i social, il podcast, il metaverso. E ogni volta sembrava non ci fosse più spazio per quella scatoletta che pareva destinata alla soffitta della nonna.
Ma la radio ha resistito a tutto, si è reinventata mille volte, si è adattata, ha cambiato pelle e identità, ha saputo rimanere sempre giovane, moderna, rivoluzionaria.
Qualcuno gira ancora le manopole, altri usano una app, digitando sullo schermo di uno smartphone, altri ancora chiedono a una signora artificiale dalla voce asettica di accenderla per loro.

Cambia poco, perché la radio non è un oggetto, e nemmeno un servizio.
La radio è spirito puro, in costante movimento, capace di risorgere dalle sue stesse ceneri e incarnarsi ogni volta in una forma diversa, nuova e imprevedibile.

Sapete che vi dico? La radio è il Benjamin Button dei media.

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