È capitato ad ogni romano esistente. Nativo o naturalizzato.
Di ritrovarsi ad un’ora x di un giorno y risucchiato in un infero gorgo di macchine (magari più elettriche, ma non per questo meno ingombranti), a impiegare venti minuti per percorrere un paio di metri abbondanti.
Col Dio semaforo in opposizione, la carreggiata ristretta per lavori sempiterni, la strada deviata per ospitare una corsa coi sacchi ai Fori Imperiali o il gioco della pentolaccia a Terme di Caracalla. Oppure, con adunata a Piazza del Popolo, una doverosa manifestazione per i diritti dei criceti sassoni.
E, a suggellare il tutto, un bel plotone di vigili che dirigono il traffico come le hostess illustrano le manovre di emergenza prima del decollo, ma con un pizzico di coreografia in più. Diluendo in una durata indefinita quello che gli autisti autogestiti avrebbero risolto eoni prima.
Esiste una Roma che non compare in nessuna guida turistica, una città nella città fatta di inattesi frammenti di magia. Una Roma in cui la parola d'ordine è girovagare, dalla primavera all'inverno, sotto la pioggia e sotto il sole.
Questo per chi abbia l’eterea scioltezza di avvalersi del proprio veicolo. Per chi invece, sfrontata come la sottoscritta, palpeggi l’improntitudine di salire a bordo dei mezzi pubblici, si squarciano altri scenari.
I tempi restano sempre biblici, ovvio, ma in più si assapora l’esperienza fossile di imprimere le proprie vertebre sulla schiena del “vicino”, arrivando quasi per sinergia mistica a non distinguere dove finisce il tuo corpo e principia quello dell’altro.
A volte nasce un amore. Più spesso un attacco di panico.
Ecco, esattamente in questi frangenti, ogni cittadino romano, inanellando variabili sequenze di anatemi e proiettandosi in emiparesi dentro qualche non pervenuto casale della Tuscia, maledice la propria città.
Ripromettendosi di ricontattare quel vecchio compagno di classe migrato in Costarica.
Ma poi c’è sempre un “ma poi”. Ma poi gli occhi si incagliano. Sul coltello di sole che incide la lingua dell’Isola Tiberina mentre sonnecchia, totalmente incurante del tuo delirio. O sulla calma di pietra che svapora dall’area sacra di Largo Argentina, dove i gatti sorpassano millenni con grazia superna.
Sono quelli che Zweig definirebbe i “momenti fatali”. Un’immagine, un’impressione che spariglia le carte e che, malgrado tutto, quella città un po’ molle e un po’ affaticata te la fa amare senza ritegno.
Vedendo Roma, Iosif Brodskij diceva: «Una dracma d’oro è rimasta sopra la mia retina. Basta per tutta la lunghezza delle tenebre»
Questo bagno di luce, almeno per me, non si è mai interrotto.
E da romana oltre che da libraia, è bello ripescare l’Urbe in mezzo alle pagine oltre che in mezzo agli occhi.
Per quelli che la vivono costantemente e per quelli che la colgono solo come occasione, Roma è soprattutto un’avventura da leggere.
Marco Lodoli lo sa e ce lo dimostra. Il dittico Isole e Nuove isole è una manciata di epifanie, minime accecanti meraviglie che le guide ufficiali non riportano. Visioni, scorci di chiostri, stupori sotterranei, ma anche bar incastrati nell’edera e incontri di silenzio che il caos non riesce a ghermire.
Questa raccolta di articoli comparsi prima sul Messaggero e poi su Repubblica, ci insegna a mantenere uno sguardo vagabondo, a non dare nessun anfratto per scontato, perché a Roma è sufficiente svoltare l’angolo per cambiare pianeta.
Nel giro di pochi giorni, nel marzo del 1927, un furto di denaro e gioielli ai danni di una svaporata e fantasiosa vedova, la contessa Menegazzi, e poi l'omicidio della ricca, splendida e malinconica Liliana Balducci, sgozzata con ferocia inaudita, incrinano la decorosa quiete di un grigio palazzo abitato da pescecani, in via Merulana.
Sarebbe d’accordo anche Silvio Negro, che col suo Roma, non basta una vita, sa dispiegare già nel titolo l’inesauribile sorgente di innamoramenti e moltitudini.
Con lui, andando per Roma, si dissotterrano tane per l’anima, luoghi in cui rigenerarsi ed istruirsi tra piazzette e palazzi, scoprendo templi di rinascita completamente inattesi.
A volte, infatti, chi non appartiene a un luogo per nascita ma per adozione riesce ad afferrare nature e sentori che ad altri sfuggono. Così afferma anche Carlo Verdone (che più romano non si può) pensando a Pasolini, Gadda, Flaiano (allo stesso Negro) e alla costellazione di artisti atterrati a Roma come asteroidi e diventati voci perenni della città. Accade così anche per Fulvio Abbate, che in Roma, vista controvento, scandaglia sotto la pelle capitolina per condurci da Monte Caprino a viale Europa, da Saxa Rubra a Coppedè, passando attraverso buche stradali e filetti di baccalà. Per assaggi sempre non convenzionali.
Caustico, impenitente, pronto a restituire una versione grandiosamente imprevista della Bocca della Verità come di Claudio Baglioni. Abbate ne ha una per tutti. Per chi volesse sorridere e non solennizzare.
Di tutt’altro approccio, se si è in cerca di memoria e ispirazione, è il resoconto di Ingeborg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma; antologia di corrispondenze per la radio di Brema durante i primi anni ’50.
Uno spaccato di Roma vibrante ed inquieto su misteri, cronache e colori che non sono poi così distanti.
La fame di aneddoti e leggende non si placa facilmente. E una città come Roma è una candidata egregia per innescare enormi appetiti. Stefano Caviglia, giornalista molto attento alle infinite facce della città, ci immerge in un viaggio capace di coniugare passato e presente, lasciandoci addosso un incanto indelebile. Guida inutile di Roma e A proposito del Tevere ci sfidano a sorprenderci come visitatori di altre epoche, accarezzando gli interminati fili che sorreggono questa città nel suo equilibrio così precario e atemporale.
Con una prosa di rara eleganza, Sandra Petrignani ci restituisce un pezzo della storia di Roma, raccontando la storia degli artisti che, a partire dal 1952, la resero un palcoscenico internazionale.
Difficile non pensare Roma come patria dell’arte e di straordinari artisti, che l’hanno popolata e cosparsa di favola. Roma e i sette mesi che vi trascorse James Joyce, confluiti nel romanzo di Enrico Terrinoni Su tutti i vivi e i morti , per tracciare un canale d’accesso scompigliante ad una mente vulcanica e segreta. E provare a intuire il concepimento dei suoi personaggi.
In questo binario potenzialmente infinito Sandra Petrignani in Addio a Roma ci imperla di nomi quasi ipnotici: Pasolini e Penna che conversano sul Tevere, Natalia Ginzburg in cerca di casa, Elsa Morante e suo marito Alberto (Moravia) che passeggiano per via del Babuino. La Roma incastonata tra le mani di Guttuso e De Chirico, negli occhi di Fellini e tra le parole di Parise. Una Roma che è quasi una formula magica.
Roma, per chi ancora non lo sappia, malgrado ora conosca uno sviluppo urbano smisurato, è soprattutto la storia dei rioni che la compongono. Ed ognuno sembra quasi un paese a se stante, con le sue leggi e i suoi racconti.
Tra i più famosi campeggia certamente Testaccio, collina alta circa 35 metri di cocci e molti più di miti e leggende. Paolo Morelli con Ridondanze, un collage di vite qualunque custodite dai suoi abitanti come un forziere di gemme. Perché il valore di una città si annida nelle crepe di chi la respira e la consacra alla fama con le sue piccolezze.
Viene da Trastevere e i suoi amici sono tutti romani, ama le storie degli ultimi, è ruvido, tormentato, spesso gioca un po’ sporco. Parliamo del vicequestore Rocco Schiavone di cui si presentano qui cinque indagini ambientate tutte a Roma.
Chi vi scrive, però, è intrinsecamente ineludibilmente libraia. E per giunta, malgrado l’onorato servizio in una mastodontica libreria del centro, proveniente dalla periferia.
Nello specifico, da un quartiere che ancora oggi non smette di affatturarmi ogni volta che mi permetto il lusso di non correre: Garbatella.
Chiamato così in riferimento all’ostessa garbata e bella di nome Carlotta che accoglieva gli avventori nella sua locanda sulla via Ostiense.
Oasi cinematografica e letteraria, che ritroviamo anche di recente come nucleo di diversi romanzi. Garbatella combat zone di Massimiliano Smeriglio denuncia lo spirito più oscuro e vertiginoso, dove il protagonista sprofonda nel crimine e nel tradimento; Il giardino elettrico di Simone Caltabellotta, in cui vivi e morti coesistono tra amore e malinconia; Garbatella effetto notte e La ragazza Garbatella di Laura Eduati ci propongono versioni e chiaroscuri del quartiere attuale, per bilanciare a dovere turbamento e ironia.
Considerato come il cardine di un'ideale trilogia iniziata con Gli indifferenti e conclusa con La vita interiore, La noia (1960) ci offre un ritratto profondo e spietato di un individuo senza strutture, senza appoggi, alienato dalla vita sociale.
Ma fuoriuscendo dai confini del mio privato abitare, Roma scalcia e persiste in altri romanzi graffianti, esemplari lucidissimi delle sue contraddizioni.
Da Agosto di Rocco Carbone a Il contagio di Walter Siti, transitando attraverso La noia di Alberto Moravia fino a Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno. E sarebbe ingiusto non citare Roma di Aldo Palazzeschi, Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti e La città dei vivi di Nicola Lagioia, dove Roma non è solo sfondo, ma forza trainante dell’intera vicenda.
E se avessimo un’incoercibile voglia di giallo, anche qui Roma non saprebbe deluderci, assurgendo a teatro perfetto di delitti eccellenti, che siano reali o immaginati.
Perché Roma spesso nasconde molto più di quanto rivela.
L’elenco sarebbe iperbolico. Francoise Morlupi e il suo commissario Ansaldi, protagonista della serie I cinque di Monteverde, tanto quanto le Cinque indagini romane per Rocco Schiavone di Antonio Manzini, I sicari di Trastevere di Roberto Mazzucco e svariati titoli molto romani di Massimo Lugli e Antonio del Greco, tra cui Inferno capitale, Il canaro della Magliana e Il giallo di via Poma.
La scelta di scrivere in dialetto risponde, in genere, a una spinta "verso il basso". Non a Roma, dove è esistita una tradizione di poesia dialettale che con il Belli, nell'Ottocento, raggiunge il suo vertice. Anche Trilussa sceglie di puntare "verso l'alto".
Qualora invece Roma volessimo circumnavigarla in rima, chi più di Belli, di Trilussa o di Pascarella saprebbe degnamente affabularci con un verso?
Simpatizzate per qualcosa di più contemporaneo? E allora ci sono loro, i Poeti del Trullo che con Metroromantici ci offrono quanto basta di sarcasmo e schiettezza ispirata.
Come asseriva un altro grande amante di questa città, ovvero Goethe: «Non c’è che una Roma al mondo ed io mi trovo qui come un pesce nell’acqua e vi nuoto e galleggio come una bollicina galleggia sopra il mercurio, mentre affonderebbe in qualsiasi altro fluido».
E ancora: «Solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma»
A questo punto quindi non c’è altro da fare che restare impigliati. Nel traffico folle di questa Grande Bellezza.
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