Al contrario di un tempo, un tempo abbastanza recente, Torino è diventata altro da sé nell’immaginario collettivo degli italiani. Ho perso il conto delle volte che, eravamo ancora nel secolo scorso, quando presentavo uno dei miei libri in un’altra città italiana e dicevo che ero di Torino mi sentivo rispondere: “Oh, poverino”. A un certo punto, invece, eravamo già nel nuovo millennio, la reazione è diventata: “Ah, che fortuna!”
Bene o male, purché se ne parli! Torino ha sempre goduto di una fama alterna, molto amata ma anche molto criticata, da alcuni aborrita da altri vagheggiata. Torino non si mostra subito, si nasconde. Una citta inquieta, una “grossa torta a molti strati”.
Quasi sempre è stata più apprezzata da chi non vi è nato, dagli scrittori che non la vivono dentro le sue viscere e la scoprono, nella sua innegabile bellezza, quasi casualmente, rimanendone affascinati. Così ne scrive Curzio Maltese in Azzurro stralci di vita:
"Torino per me era l'odore di fabbriche e ferrovie. In realtà ci ero sempre andato solo per lo stadio. Appena mi sono trasferito ho capito che era una città elegante e profumata. Il centro con le piazze e i caffè signorili, il Museo egizio, il parco del Valentino e poi Superga, Moncalieri, la Reggia di Venaria, le montagne. Non mi sarei mai immaginato un concentrato di tanta bellezza."
Il racconto di una vita vissuta con grazia e ironia. Dentro c’è tutto il romanzo dell’Italia contemporanea.
Da Palazzo Madama al Valentino
ardono l’Alpi tra le nubi accese…
È questa l’ora antica torinese,
è questa l’ora vera di Torino…
Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca
tuttavia d’un tal garbo parigino
Tanti torinesi, autoironicamente, sottolineano gli aspetti più drammatici della permanenza dei grandi autori tra le sue strade ordinate, del soggiorno nei suoi palazzi: la follia di Nietzsche sarebbe stata così dirompente se le sue finestre non si fossero affacciate su piazza Carlo Alberto? Cesare Pavese, Primo Levi, Giovanni Camerana, Emilio Salgari, Franco Lucentini, al di là dei drammi del loro vissuto, avrebbero deciso di porre fine alle loro esistenze suicidandosi se fossero stati abitanti di altre città? Ed è un caso che la casa in cui Silvio Pellico scrisse Le mie prigioni sia tra via San Francesco d’Assisi e via Barbaroux, dove ancora una lapide lo ricorda? Scriveva Filippo Burzio in Piemonte (prima edizione Società Editrice Subalpina, 1938 e poi Utet, 1961):
«[…]La Torino di Carlo Felice e di Carlo Alberto, o piuttosto di Silvio Pellico e del Cottolengo: una Torino retriva (e diciamo meglio bigotta) che concordemente Azeglio e Cavour trovavano ‘asfissiante’; ma quelli erano viveurs; anime perse; mentre il caro borghesuccio Silvio Pellico ci si trovava invece così bene quando allungava il passeggio fino alla Consolata, entrandovi a far le divozioni […]»
Nel passato la Torino è quella del Cuore di Edmondo De Amicis – siamo nel 1886 - e di Gozzano. Scrive ancora Giampaolo Dossena in Luoghi letterari:
«Torino, che per noi nativi è anche romana e sabauda, Porta Palatina e Settecento – per gli altri è soprattutto Risorgimento, anche quella realizzata poeticamente, quella di Giudo Gozzano» (...) «mai nessun poeta ha mai fatto tanto male alla sua città come Gozzano. Proust che agonizza nel sughero, nel cuore di Parigi, e pensa a Parigi a modo suo: in confronto a Gozzano Proust è una maschera regionale, una macchietta di quartiere, un tifoso alla partita, un difensore della patria.»
È passato piú di un secolo da quando, nel 1886, Cuore venne pubblicato per la prima volta. Eppure, ancora oggi, questo libro ci colpisce per i suoi pregi letterari: per la scrittura, per la sapienza di una sceneggiatura completa, per la capacità di concludere un episodio con una singola magistrale frase.
Una Torino sabauda ma provinciale, Capitale del Regno ma incapace di affermarsi come tale, una Torino superata dai tempi che negli anni Duemila è tutt’altro, molto più internazionale, aperta, colorata e luminosa, multietnica come non si era mai immaginata, raccontata e amata in modo nuovo dai suoi abitanti contemporanei.
Ciò che non ha perso è il suo alone di mistero: in quella che oggi si chiama via Michele Lessona e all’epoca Cascina Marozzo, c’è la lapide che ricorda il soggiorno torinese di Nostradamus (1556). Inutile rivangare le leggende del Graal (forse nascosto nelle viscere della chiesa della Gran Madre di Dio?) e quella figura conosciuta, riverita e quasi temuta da molti grandi della terra: Gustavo Rol.
La Sindone e il Museo Egizio con la straordinaria raccolta di mummie e libri egizi dei morti, Giovanni Bosco e il Cottolengo, il fulmine che colpì nel 1904 l’Angelo sulla cime della Mole nata come tempio ebraico, poi votata ad altri compiti ma attrattiva per esoteristi e occultisti… tutti argomenti a favore della leggenda di Torino mistica e magica.
Tra i più affascinanti libri che siano stati scritti su Torino (rapportati al periodo, ovviamente) troviamo Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, uscito per Einaudi nel 1963. La Torino intellettuale, colta (ebraica, universitaria, cosmopolita), la Torino einaudiana. Una “fettina di quella torta di Torino” piccola ma estremamente significativa.
«Quella che amavo era la casa editrice che s’apriva sul corso re Umberto, a pochi metri dal caffè Platti, a pochi metri dalla casa dove stavano i Balbo, quando abitavano ancora a Torino.» La città della Ginzburg è ai margini del centro, tra via Pallamaglio e via Pastrengo, tra via Bogino e corso Re Umberto, il cuore pulsante, il nucleo dell’antifascismo.
Il romanzo racconta la storia di una famiglia ebraica e antifascista, i Levi, a Torino tra gli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento.
Un altro capolavoro assoluto della narrazione della città è La donna della domenica. Fruttero (torinese doc) e Lucentini (romano “torinesizzato”) regalano una fotografia perfetta della città all’inizio degli anni Settanta. La “torta” qui è narrata ancora a strati, ma vengono visti tutti. La città si apre: dal centro a quartiere residenziale della Crocetta, da Porta Palazzo alla collina.
I protagonisti hanno vissuti ed estrazioni differenti: c’è il torinese architetto Garrone (che abita nella centrale via Mazzini) sgradevole vittima dell’omicidio su cui si indaga, c’è la bellissima e ricchissima Anna Carla Dosio, che vive nel lusso non troppo ostentato, e l’amico omosessuale Massimo Campi “figlio dei miliardi di suo padre” che guarda il mondo dalle finestre di piazza Solferino. Accanto a questi protagonisti alto borghesi e nobili (il cui mondo è descritto magistralmente) ruotano personaggi che appartengono ad altri strati della torta, che rappresentano tutti i difetti e le virtù di Torino. Dal romano commissario Santamaria al compagno di Massimo, Lello, impiegato del comune che abita nella vecchia e fatiscente via Berthollet, dai rigattieri del Balùn (celeberrimo Marché aux Puces della città) un po’ piemontesi e un po’ meridionali, alle anziane sorelle Tabusso, torinesi con casa in collina e vigna Le Buone Pere (che in piemontese significa pietre), alle prostitute di via Barbaroux… E tante descrizioni di Torino negli spostamenti, nelle passeggiate dei protagonisti, nelle riflessioni. Imperdibile.
Il commissario Santamaria si trova a indagare nel mondo della borghesia piemontese, tra professionisti dalla doppia vita, dame dell'alta società affascinanti e snob, e industriali. Sullo sfondo - ma è in realtà la vera protagonista - vi è una Torino in apparenza ordinata e precisa fino alla noia, che nasconde un cuore folle e malefico.
Poi arrivano i nuovi autori, che spesso a Torino non ambientano i romanzi. Come Alessandro Baricco.
Scrive di lui Aldo Cazzullo in Il mistero di Torino: “Baricco è un esempio del nuovo torinese, affabulatore, seduttivo, ammiccante, estroverso, ‘sembra un milanese’. Per me è un complimento, per i vecchi torinesi non so.»
A raccontar Torino è soprattutto Giuseppe Culicchia, negli anni Novanta con il suo Tutti giù per terra, dove la città diventa parte e sfondo per affrontare le crisi delle nuove generazioni, ma soprattutto con Torino è casa nostra, non un romanzo ma una narrazione appassionata e letteraria di una città in piena trasformazione, viva e sorprendente come forse non mai.
I torinesi si sono sempre divertiti, ma una volta... si vergognavano di farlo sapere. Avevano un’immagine pubblica a cui attenersi. Erano militari. Operai. Intellettuali. Gente abituata alla disciplina e all’autodisciplina. Anche per questo a Torino si sono sempre fatte tante feste private. Molto private. […] Se non hai frequentato lo stesso liceo del padrone di casa, col piffero che t’invitano. Già, funziona così, ha sempre funzionato così e funzionerà sempre così. Noi le regole che informavano la vita nelle caserme e nelle fabbriche ce le portiamo dentro di generazione in generazione, anche se ormai parecchie di quelle caserme e gran parte delle fabbriche sono state chiuse o addirittura rase al suolo. Però, è successo qualcosa: perché oggi come oggi i torinesi non si vergognano più di divertirsi. Peccato che al momento non ci sia molto di cui divertirsi. Ma passerà.»
Ritratto di un luogo fuori del comune, "Torino è casa nostra" racconta, tra momenti di comicità e spunti di riflessione, una città viva e piena di sorprese. Perché Torino è Torino, non è una città come un'altra.
Senza l’Italia, Torino sarebbe più o meno la stessa. Ma, senza Torino, l’Italia sarebbe molto diversa.
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