Il 1719 è un anno spartiacque nella storia moderna di Trieste: Carlo VI, imperatore d’Austria, istituisce il Porto Franco e la città diventa un centro d’attrazione per persone delle più diverse provenienze e per i galeotti a cui vengono condonate le pendenze con la giustizia. Da questo momento Trieste, che era un borgo di pescatori di cinquemila abitanti con un passato illustre in epoca romana, documentato, tra l’altro, dal teatro di età augustea riemerso tra 1934 e 1937, più vicina al mondo austriaco che all’eterna rivale Venezia sin dalla fine del Trecento, comincia a svilupparsi e a crescere rapidamente, fino a raggiungere i 250 mila abitanti nel 1914.
Trieste è una città di pionieri, in cui l’etica dei mercanti plasma tutti gli aspetti dell’esistenza e si riflette nelle case-magazzino del Borgo Teresiano, costruito a partire dalla metà del Settecento per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, ideale prolungamento di Vienna con i i suoi spazi geometrici e gli edifici monumentali: il nuovo quartiere è completamente diverso da quello di Città Vecchia, più simile a un suq orientale, caotico e dal carattere ibrido e irregolare, che Silvio Benco descriverà con toni espressionistici, e che invece per Umberto Saba sarà il “mondo meraviglioso” dell’infanzia, lo spazio dove trovare un’umanità autentica, “l’infinito nell’umiltà”.
Da questa finestra, incastonata tra rocce e mare, il lettore si sporgerà fin quasi a toccare i protagonisti delle opere di autori e autrici che, dalla fine del XIX secolo a oggi, hanno designato Trieste fulcro e motore primario della narrazione
Già nel Settecento la comunità ebraica è numerosa e sono presenti diversi culti religiosi che possono convivere pacificamente, soprattutto dopo l’Editto di tolleranza di Giuseppe II del 1781.
Anche durante l’Ottocento il flusso costante delle merci e l’attività frenetica del porto dettano il ritmo di una città che cresce velocemente come l’adolescente evocato da Saba nella poesia Trieste, senza essere del tutto consapevole di quanto le stia succedendo, dei problemi e delle potenzialità connessi a uno sviluppo così veloce.
Il destino storico di Trieste è legato a quello commerciale: come osservano Angelo Ara e Claudio Magris nel loro libro Trieste. Un'identità di frontiera, la città non ha una vera e propria identità, radicata nel tempo e in una tradizione storica sedimentata, ma è un “artificio illuministico, ideata da un Impero in cerca di un porto”.
Angelo Ara e Claudio Magris si sono proposti di indagare proprio la peculiarità del "caso Trieste", studiandolo nella sua storia e nelle testimonianze letterarie.
A partire dagli inizi del Novecento e in particolare con Scipio Slataper e i giovani della sua generazione, la stessa volontà pionieristica che anima i mercanti, inizia a pervadere anche gli scrittori che, non avendo la sicurezza di un passato, sentono il bisogno di creare una tradizione e una letteratura per riscattare il mondo mercantile da una dimensione puramente economica e materiale: anche quello degli intellettuali, che tendono a trasformare la città da luogo fisico in luogo ideale, è uno sforzo di costruzione dove nulla è scontato, e dove è costante il confronto con le caratteristiche del paesaggio naturale e umano, insieme a una acuta propensione analitica, ma sempre legata alle ‘cose’.
Dal punto di vista geografico, Trieste è una città di frontiera, un “paesaggio di limite”, sospeso tra mondo continentale e mondo mediterraneo, tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, tra Carso e mare, è un contesto che provoca continui cambiamenti di percezione: tutto ci sembra sfuggente, instabile, precario, il senso di ciò che vediamo deve essere sempre riformulato.
Livio Poldini ha definito questo mondo di confine una “soglia biogeografica”: si sovrappongono molteplici identità, spazi e tempi eterogenei; nello stesso tempo, è un rifugio per le diversità naturali e umane.
Un paesaggio vario e impervio come quello di Trieste mette in discussione continuamente i confini effimeri tracciati dalla politica: dopo il crollo dell’Impero Austroungarico con la Prima Guerra mondiale, Trieste è diventata “italianissima” e “fascistissima”, tanto che Mussolini la scelse per annunciare l’emanazione delle Leggi razziali nel 1938; tra 1943 e 1945 è stata sotto il diretto controllo della Germania nazista; è stata proclamata territorio “libero” sotto il controllo degli Alleati tra 1945 e 1954, quando è tornata all’Italia, con la sensazione, tuttavia, di un amore e di un romanticismo incompresi, non corrisposti. Ancora oggi, forse, la maggioranza degli italiani ha un’idea poco precisa della città, della sua storia piena di tragedie e di conflitti: vicino a Trieste passava la cortina di ferro, che separava l’Europa occidentale dal mondo comunista, e questo ha inasprito il rapporto con il mondo slavo, sentito come una minaccia non solo per l’identità italiana ma anche per la libertà.
Una certa delusione nei confronti dell’Italia, idealizzata anche dagli irredentisti, e l’aver subito tante tragedie della Storia ha alimentato il “mito mitteleuropeo”, di cui Claudio Magris è l’interprete più significativo: nell’immaginario collettivo Trieste viene identificata con il suo glorioso passato imperiale e con una cultura transnazionale, eccentrica rispetto al resto d’Italia, dalla forte impronta ebraica, rappresentata soprattutto da Italo Svevo.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Trieste è stata un centro d’avanguardia della modernità, la “città immediata” dove James Joyce, insegnante di inglese di Svevo e di altri esponenti della borghesia cittadina, ha elaborato alcuni dei suoi capolavori, e da dove, con Edoardo Weiss, la pratica terapeutica psicanalitica di Sigmund Freud ha iniziato a diffondersi anche in Italia, influenzando Svevo e Saba. A Trieste gli autori tedeschi si leggevano in lingua originale, come faceva Bobi Bazlen, tra i fondatori della casa editrice Adelphi, e si respirava la stessa “cultura della crisi” in voga a Vienna, di cui la città giuliana era una sorta di “alter ego”: anche l’architettura è unica e richiama quella della capitale austriaca e di Budapest, Praga, più che di altre città italiane.
L’eclettismo architettonico di Trieste, nel quale ritroviamo le stratificazioni degli ultimi tre secoli di storia, amplifica la sensazione di essere in un non luogo, dove tutti i periodi del Passato sono contemporanei e sembrano sopravvivere in un tempo sospeso tra realtà e sogno: è una sensazione che Jan Morris ha definito “effetto Trieste”, affascina ma, nello stesso tempo, risulta straniante e descrive bene l’essenza enigmatica, indecisa e piena di contraddizioni della città, che la letteratura rappresenta (anche oggi, con Covacich, ad esempio) e tenta di ricomporre, creando quasi un genere a sé e suggerendo l’idea di una città “di carta” più che reale.
I palazzi bianchi, qua e là l'arancione ambrato dei tetti, Trieste scende con maestosa lentezza incontro al suo mare. Non è facile riconoscere i segni del suo passato, gli emblemi, le cicatrici.
L’incontro tra l’elemento nordico, più ruvido e individualista, e l’elemento latino, più solare e socievole, può spiegare una certa inquietudine degli abitanti e degli scrittori della città, che riflettono e assorbono osmoticamente la varietà ambientale: Giacomo Debenedetti considera i triestini “figli del vento”, di quella Bora che, insieme al contesto umano così eterogeneo, produce fenomeni di nevrosi e follia, ma che è soprattutto il simbolo del vitalismo dirompente di una città dove l’edonismo e il godersi la vita sono anche una reazione alle tragedie della Storia.
Trieste piace per i suoi contrasti, per la sua aria compassata e disinibita, il suo cosmopolitismo inconsapevole e trepidamente familiare, la sapienza congenita e insicura della sua gente, la mutabilità del suo cielo e dei venti che la premono da ogni lato, ora investendola di una cruda e astratta luce artica, ora riconsegnandola al calore aromatico delle altre città di mare del Mediterraneo
Sono proprio la coesistenza degli opposti e l’incontro-scontro tra dimensioni primordiali totalizzanti a rendere unica la città.
I cieli e i venti continuamente mutevoli di Trieste, la sua varietà paesaggistica e umana, il suo carattere plurinazionale e polifonico, anche linguisticamente, ci ricordano che dobbiamo relativizzare ogni appartenenza troppo rigida, vincolante, e abbandonarci alle sorprese, alle deviazioni, allo spazio del sogno, del libero vagabondare dell’immaginazione, stimolato dall’orizzonte aperto del mare e dalla natura selvaggia del Carso e dei boschi in cui possiamo immergerci a pochi chilometri dalla città: centro e periferia si intrecciano senza soluzione di continuità, dimensioni diversissime sono in costante dialogo.
Per la prima volta sono qui pubblicate le tre differenti stesure (1912 - 1921 - 1945) della poesia più famosa di Umberto Saba: "Trieste", da cui partire per leggere lo scrittore
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