Mercoledì 8 giugno
Leggo su “La Stampa” l’unica notizia che oggi mi ha messo di buon umore.
A Malaga, in Spagna, un grande ristorante, parte di una catena presente in mezzo paese, ha istituito un cambiamento epocale nella presentazione del proprio menu. Ha infatti aggiunto il “costo del lavoro” del personale; ovvero, a fondo della lista dei cibi e dei vini, ha specificato il salario dei cuochi e dei camerieri, il loro orario di lavoro, la modalità del pagamento degli straordinari e l’inquadramento contrattuale (tempo indeterminato o stagionale).
Pare che l’iniziativa abbia avuto molto successo.
Voi direte: però viola la privacy; però non tutti possono permetterselo, pensate agli esercizi a conduzione familiare; pensate ai poveri padroni che non trovano personale perché i giovani preferiscono stare sul divano con il reddito di cittadinanza… E va bene, mica si richiede di rendere la cosa obbligatoria, però – sarete d’accordo – sapere se chi mi porta la pizza al tavolo è pagato perlomeno con il salario minimo, rende la pizza stessa molto più saporita. Pensate, ad esempio, a quante ore di lavoro deve fare un ragazzo assunto in nero per potersi sedere a un tavolo con la fidanzata e offrirle la stessa pizza nel suo giorno libero. Ammesso che ce l’abbia...
E poi… Siamo o non siamo noi che al supermercato ci caviamo gli occhi per scoprire dove il pesce è stato pescato, se c’è il glutine o no, se c’è l’olio di palma, e quanto colesterolo contengono i cibi? Nei ristoranti accade lo stesso. E sui pacchetti di sigarette non c’è forse scritto “il fumo uccide”? Insomma, si tratta di leggi a protezione dei consumatori, in genere ottenute grazie alla mobilitazione di sindacati o a movimenti di opinione pubblica.
E dunque, perché anche le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti che “ci servono”, non dovrebbero essere rese note?
Secondo me, quel ristoratore di Malaga è un genio del business: altro che Briatore o la Confindustria!
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