Diario di bordo

Boris Pahor e Carlo Smuraglia: radici profonde cent'anni

Mercoledì 1 giugno

Se ne sono andati, a pochi giorni l’uno dall’altro. Li accomuna aver vissuto un secolo: il secondo “quasi”; il primo superandolo di otto anni.
Li metto vicini, in questa rubrica, per la loro capacità di fare sempre la cosa giusta e per quella di non dimenticare.

Il primo è Boris Pahor, sloveno nato a Trieste nel 1913, che all’età di sette anni assistette (episodio che dovrebbe essere ricordato nelle scuole italiane ma non lo è) al rogo del Narodni Dom, la Casa del Popolo triestina-slovena messa a fuoco dalle squadre di Mussolini, nel 1920: il biglietto da visita di quello che sarebbe diventato il razzismo italiano, prima ancora delle leggi razziali.
Pahor patì la persecuzione dei fascisti italiani, poi dei nazisti, poi dei comunisti titini.
Passò la guerra in sei campi di concentramento tedeschi, fu testimone dei massacri, delle fosse comuni e delle foibe, si salvò a stento dalla tubercolosi; coltivò per tutta la vita la scrittura, in sloveno, la lingua che il fascismo gli aveva impedito di parlare.
A metà della sua vita pubblicò il suo capolavoro, “Necropoli” che per decenni in Italia non venne considerato, anche perché incentrato sulle atrocità commesse dai fascisti italiani in Slovenia, argomento che si preferiva evitare.
Quando venne conosciuto – e fu merito dalla trasmissione televisiva di Fabio Fazio, nel 2008 – divenne un bestseller.
Chi l’ha letto non l’ha dimenticato, nel mondo è paragonato a Primo Levi.
La sua vita è stata narrata a Cristina Battocletti che ne ha tratto una biografia intitolata “Figlio di nessuno” (attualmente il libro non è disponibile, speriamo venga presto ristampato).

Era quasi arrivato ai cent’anni – e in grande forma – quando ha ceduto Carlo Smuraglia, partigiano, avvocato, parlamentare del PCI e dei DS, presidente dell’ANPI, persona – davvero – d’altri tempi. Nato ad Ancona, partigiano combattente associato all’esercito inglese sull’Adriatico, comunista, laureatosi in legge dopo la guerra, scelse non la carriera, ma la pratica nobile e non sempre presente nella sua categoria, di difendere, come “parte civile” i poveri, le vittime di ingiustizia, primi fra tutti le famiglie degli operai uccisi a Reggio Emilia dalla polizia di Mario Scelba nel lontano 1960. Sempre descritto come un uomo austero, di poche parole, meticoloso, preparatissimo, mai retorico, Smuraglia ricorderà sempre la sua difesa più appassionata, quella di Licia, Claudia e Silvia Pinelli, che si rivolsero a lui per cercare la verità sulla morte di Pino, l’anarchico precipitato dal quarto piano della Questura di Milano, dove era detenuto, illegalmente, da tre giorni e accusato dalla polizia di essere l’autore della strage di piazza Fontana.

Non mollava, l’avvocato Smuraglia. Tre mesi fa, da presidente onorario dell’ANPI, ci tenne a dichiarare il suo vivo favore all’invio di armi alla resistenza ucraina; e nello stesso tempo, su richiesta della famiglia Pinelli, non esitò ad assisterla personalmente contro un pezzo grosso della polizia in pensione che non aveva trovato di meglio che affermare che “Pinelli si era suicidato”.

Era fatto così.

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