Diario di bordo

Ci emozionano ancora le fotografie di guerra?

Lunedì 6 giugno

È domenica sera, dall’altra parte del mondo. Scopro adesso che ho passato il weekend in mezzo a immagini di morte e distruzione; che si sono rincorse tra l’Ucraina e il Texas, tra un’acciaieria a Mariupol e una scuola elementare di Uvalde, al confine con il Messico. Di ambedue questi luoghi simboli, ormai sapete già tutto – due aspetti diversi della stessa catastrofe da cui non ci salveremo? - ma siamo condannati a sapere sempre di più. Per esempio, ho letto uno splendido longform che scava nel profondo della storia, di Ezio Mauro su Repubblica, affiancato dalle fotografie di Paolo Pellegrin dai luoghi della guerra, con un paesaggio antico che si mangia, indifferente, gli esseri umani.

Pellegrin spiega il suo metodo di lavoro, cosa cerca di catturare con le immagini (e cosa non cerca); e cosa si propone quando sceglie di farle conoscere.
Ho visto poi il portfolio del settimanale New Yorker, con un eccezionale reportage di James Natchwey, il 75enne fotografo di guerra, l’erede di Robert Capa: bianco e nero crudo, dettagli, ambienti: la cerniera di un bodybag, un tavolo apparecchiato, la striscia di sangue che deve aver lasciato un morente su un pavimento di mattonelle bianche smaltate.

Ci emozionano ancora le fotografie di guerra?
Avrete fatto caso che i russi non diffondono foto della loro “operazione speciale”. Non ci sono cittadini ucraini che accolgono i liberatori, non ci sono ragazze che portano fiori.
C’è solo questa “Z”, che, come dice Ezio Mauro, nemmeno Orwell avrebbe immaginato.

Poi sono passato a Uvalde, più vicino a casa.
I ragazzini uccisi erano tutti messicani e ho visto alla cerimonia funebre i mariachi messicani, i loro riti, le loro canzoni con la chitarra, i cappelloni neri e i fiocchi rossi.
Non c’erano bianchi, neanche per rappresentanza. Non c’erano tutti i politici repubblicani che hanno prestato fedeltà eterna alla National Rifle Association, la responsabile delle stragi che in America sono ormai una cavalcata inarrestabile. Di questa ondate di morte non ci sono fotografie. Per Uvalde c’è però un particolare spaventoso: la polizia (intervenuta con ritardo di 80 minuti!) non riuscì ad identificare i morti e quindi chiese ai genitori un confronto del DNA. Ebbene, l’altro giorno un alto ufficiale della sicurezza del Texas – un raro caso di persona umana – ha detto: “Bisognerebbe far vedere quali sono gli effetti di un fucile mitragliatore AR 15 scaricato sul volto di un bambino. Forse servirebbe”.
È seguito un dibattito. Una soluzione saggia mi è sembrata questa: no, non renderle pubbliche, ma mandare le fotografie in busta chiusa ai politici che si oppongono a prendere qualsiasi decisione sull’uso delle armi.

Come la pensate?  

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