Una ragazza ti ha chiesto: Che cosa è poesia?
Volevi dirle: Già il fatto che esisti, ah sì, che tu esisti,
e che nel tremore e stupore,
che sono testimonianza del miracolo,
soffrendo mi ingelosisco della tua piena bellezza,
e che non posso baciarti e con te non mi posso giacere,
e che non ho nulla, e colui che è sprovvisto di doni
è costretto a cantare…
Ma non glielo hai detto, hai taciuto
e lei non ha udito quel canto…
(Vladimír Holan, Una notte con Amleto e altre poesie, nella traduzione di Angelo Maria Ripellino, SE, Milano 2023)
Poeta dai ritmi indiavolati, memore delle acutezze barocche e intriso di surrealismo e di avanguardie, ma capace a tratti di suscitare un palpito lirico e di preservare una specie di aureola d’innocenza intorno al mondo, il poeta praghese Vladimír Holan (1905-1980) riflette più volte nei suoi versi su che cosa sia poesia.
La storia è per Holan un costante deturpamento della verginità e della purezza. Sciuparsi della purezza, lenta degradazione dal ventre alla bara, e agguati e inganni e stupri e violenze e assassinii: ecco il tetro iter degli uomini. Ma v’è qualche barlume consolatorio nelle pieghe d’un tale universo?
Il mistero della creazione, quella piccola del poeta, lo attrae e lo inquieta. E dunque si chiede quale sia la sua arte e a chi sia in fondo diretta. Perché la poesia è un atto rivolto a qualcuno, anche quando non pare.
In un testo intitolato semplicemente Poesia (da In progresso, 1964), Holan osserva, con piglio aforistico:
Se un uomo non si sente perduto, è perduto / a tutto ciò che si svolge negli altri / e che avviene in lui
C’è un cuore che nella poesia ci balestra verso gli altri, oltre che verso la parte di noi stessi più intima e nascosta, che va scovata sotto strati di abitudine e trantran. E in una poesia successiva di In progresso, quella che qui si commenta, ecco che Holan disegna una specie di aneddoto. Una Beatrice casuale, appena intravista, lo fa ragionare sulla poesia, su quell’arte sottile, in delicato e fragile equilibrio. Gli chiede, appunto, che cosa sia.
E lui, il poeta, pensa subito alla vita, alla presenza, al fatto che quella figura che lo interroga e lo suscita può essere lei stessa miracolosa e imprevista, proprio come la poesia (il grande Angelo Maria Ripellino, traduttore di Holan, osserva nella sua nota risalente come la traduzione al 1966 che «il miracolo per lui si identifica con la poesia, perché solo la poesia ha virtù carismàtiche»).
Ma non lo dice, lo pensa solamente, almanacca fra sé e sé. La poesia, sembra suggerire Holan, esiste come risposta al miracolo dell’esistere, alla forza di ciò che ci urta e ci richiama, nella sua irrefutabile consistenza.
Ed ha incarnazioni cangianti: la poesia può essere la ragazza, il vento, l’aria che porta con sé e smuove il poeta, lo costringe a scriverne. La poesia può essere ogni cosa che entri con meraviglia e in forma di dono nell’ottica del poeta.
Tutta implicita, allusa, sottintesa, l’arte moderna non è però un canto diretto, spiegato: tanto è vero che la ragazza non ne sa nulla, non può ascoltare quella risposta.
La poesia è inutile, non serve a cambiare le cose, ma si lascia animare da esse, ne fa un canto segreto, intimo, sorprendente.
Un canto, dice Holan, che nasce dalla povertà, dal non avere, dal sentirsi sempre in difetto verso la sovrabbondanza delle cose, che sono e risplendono.
Da questa povertà, dal sentirsi indigente e privo di qualcosa, nasce il canto moderno.
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