Il pozzo. In fondo c’è la tartaruga.
Sopra il cortile vaghe astronomie
di un bimbo. Argenterie ereditate
si specchiano nell’ebano. La fuga
del tempo, che al principio sembra fermo.
La spada che ha servito nel deserto.
Un grave volto militare e morto.
La vecchia casa. L’umido vestibolo.
Nel cortile che era degli schiavi
l’ombra del pergolato si arrotonda.
Il fischio di un nottambulo per strada.
Le monetine nel salvadanaio.
Nulla. Le povere modeste cose
tanto care all’oblio e all’elegia.
Fino a dove possiamo risalire con la nostra memoria? Fino al tempo della nascita, a ciò che l’ha circondata e avvolta, alle prime impressioni.
È quello che fa Jorge Luis Borges in Buenos Aires, 1899, dalla raccolta Storia della notte (1977). Il titolo della poesia indica infatti le coordinate di luogo e di tempo della nascita dello scrittore argentino scomparso nel 1986. Il testo che campeggia sotto questo titolo è un sonetto di mirabile compattezza, tutto costituito di cose visibili o udibili, di sensazioni ricercate dentro la profondità di un tempo lontano, rammemorato o quasi sognato. Che sia casuale oppure no, l’incipit è segnato proprio da un pozzo: ecco, come dal pozzo si attinge l’acqua (la tartaruga doveva servire per l’appunto a renderla pura), così dalla memoria il poeta tira su, in superficie, la carrucola, il secchio con le prime emozioni della vita. La vita al suo principiare, al suo primo, inconsapevole balenare: l’inizio della costruzione dell’identità e della storia che ognuno di noi edifica, quotidianamente, dentro sé stesso.
L'enigma del tempo che ci plasma, di un presente «fugace particella del passato», della memoria custodita dalla «vasta Biblioteca», dei nostri gesti ligi alle regole di un gioco oscuro diretto da un dio indecifrabile sono motivi familiari a chi ama Borges.
In effetti, ognuno di noi potrebbe sostituire alla città - l’amata Buenos Aires - e al tempo - il finire del diciannovesimo secolo - le proprie coordinate, compiendo lo sforzo di vedere in trasparenza, in filigrana nel sonetto, magistrale e perfetto come un congegno, le cose irrevocabili e amate del proprio inizio.
Il testo di Borges è, in questo senso, esemplare: lo è della capacità della poesia di riconquistare, di riportare in luce, con pochi tocchi, le prime tracce dell’esperienza nel mondo. E lo è della potenza della forma, che rende possibile al poeta la discesa nell’abisso dei tempi e il ritrovamento di amuleti di rara potenza. Si direbbe che non c’è in questa poesia una parola di troppo: tutto è evocazione viva e tremolante di una condizione iniziale, che con emozione il poeta riporta alla coscienza e condivide con il lettore.
Le prime stelle viste dal bambino non possono che assomigliare per lui a «vaghe astronomie» verticali sul cortile. Le effigi e gli oggetti di casa, una casa vecchia, piena di presenze e di storie (nello specifico la casa della famiglia materna di Borges), si incidono nel ricordo. Soprattutto, la poesia coglie lo sgorgare, l’emorragia del tempo al suo primo fiotto. Con finezza e con acuta percezione, il poeta osserva che il tempo «al principio sembra fermo»: quel tempo che il soggetto appena un po’ consapevole avvertirà come instabile e fuggevole, irrevocabile appunto, appare al bambino da poco venuto alla luce come uno stato, una condizione non insidiata, un eden.
È proprio il flutto del tempo che la poesia di Borges risale, sfidando l’oblio e sfidando anche, come il verso finale ci dice, l’elegia: il gusto, il piacere arcano di soffermarsi sulle «povere modeste cose» che furono, cogliendole nella loro aura e nella fitta nostalgia che ne promana.
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