Ricominciammo a fare le nostre passeggiate nel fine settimana e parlavamo sempre di Bella. Lei non ci permetteva di dimenticarla
Non capita spesso, ma quando capita, bisogna esserne felici. Non capita spesso, nella bulimica produzione editoriale, di trovare una bella storia, una di quelle che ci piaceva ascoltare da bambini e che poi abbiamo continuato a cercare nei grandi romanzi classici: una storia, insomma, che ci faccia domandare a ogni pagina «e ora che succede?» e ci spinga ad andare avanti fino a notte fonda. Con Povere creature! capita che non si stacca il naso da lì, da una storia che con la perizia e l’estro del grande narratore Alasdair Gray rende gotica, steampunk, femminista, filosofica, horror, erotica, grottesca e impossibile da classificare.
Da questo libro è stato tratto il film di Yorgos Lanthimos, vincitore del Leone d'Oro 2023 a Venezia. Pubblicato per la prima volta nel 1992, questo romanzo dalle tinte gotiche e vittoriane è la narrazione di un viaggio in cui la memoria – o l'assenza di essa – è veicolo di libertà nella scoperta di nuovi mondi e nuovi sé.
La storia è questa: ci sono due medici che studiano a Glasgow e diventano amici per alcune affinità, tra cui spicca la più importante, ovvero la profonda solitudine di entrambi. Archibald MacCandless, il narratore, è figlio di contadini spiantati e studia grazie a sussidi e borse di studio. A tradirlo è il suo accento che sommerge tutto ciò che di sensato ha da dire, suscitando l’ilarità dei suoi colleghi futuri medici. Godwin Baxter è invece il figlio illegittimo di un facoltoso medico della città, sir Colin, ma questa sua ascendenza non lo salva dall’essere terribilmente brutto, anche se di un’intelligenza sopraffina.
E c’è una pratica medica, che Baxter ha ereditato dal padre, che rende questo aspirante medico inquietante e straordinario: è capace di mantenere in vita le cellule di un corpo, anche quando il resto ha smesso di funzionare. È così che, a un certo punto, entra in scena Bella, la sua creatura – il prodotto di un corpo venticinquenne suicida e il cervello di un bambino mai nato. Fa venire i brividi, eppure, da qui in poi, non si può smettere di scivolare in questa storia.
Così i pochi piccoli ricordi in questa vuota Bell tintinnano fanno clink clank squillano rimbombano sbatacchiano fanno din don suonano risuonano detonano vibrano riverberano echeggiano riecheggiano in questo povero cranio vuoto con parole parole parole parolparolepaolepaolepaoleparoleparoleparoleparoleparole che cercano di trasformare il poco in molto ma non ci riescono. Ho bisogno di più passato.
Non c’è bisogno di citarla, Mary Shelley, né di tirare in ballo il suo Frankenstein, perché il riferimento è evidente. Meno evidente sono gli altri riferimenti, che attingono alla filosofia e a quella di Mary Wollstonecraft in particolare. Perché, sin da subito, la mostruosità dell’operazione di Godwin (che da Bella è chiamato significativamente «God») non sta tanto nella creatura, quanto nel suo dichiarato scopo di generare una donna che potesse amarlo ed essergli devota. Devota come si è a un genitore, eppure al contempo innamorata come di un eroe: del resto, la vita di Bella è letteralmente nelle mani di God.
Eppure accade qualcosa, perché forse Godwin non ha fatto i conti con l’assoluta libertà che deriva dall’incontro tra un corpo nel pieno della giovinezza e un cervello infante: la somma libertà del bambino, assoluta, selvaggia, porosa, ha a disposizione un corpo sensuale e maturo con cui, di fatto, controllare il mondo che sta intorno. Perché nella leggerezza di Bella c’è in realtà una profonda curiosità verso l’altro e verso i luoghi dove si è trovata ad abitare. Senza un passato, senza una famiglia – Godwin tenta di mentirle, ma lei, come ogni bambino, capisce esattamente l’entità della menzogna – e senza creature simili a lei, povere come lei.
E la sregolatezza che Bella ci sembra vivere (è meravigliosa la lettera dell’avvocato con cui fugge per amore, di notte, per una luna di miele in giro per l’Europa, con lei che non smette di fare sesso e di volerlo fare e con lui che era «abbastanza uomo, ma i ritmi erano terrificanti») è in realtà il suo desiderio di scoprire quanto più mondo possibile attraverso i mezzi che ha a disposizione. Ma se questo non fosse sufficiente a convincerci che il comportamento di Bella è solo il prodotto della sua libertà, a sua volta prodotto di un esperimento – grazie a dio e a God – fallito, c’è anche, dopo una storia raccontata da soli uomini, la sua versione.
Ma il buon lettore non ne ha davvero bisogno: ha già riso come un matto a vedere quell’avvocato tanto spavaldo in affanno, si è già spaventato per gli effetti potenzialmente distruttivi e inquietanti di Godwin, si è già innamorato – più e più volte, e sempre per un motivo diverso – di Bella. La sua versione è dovuta solo perché lei, talmente libera, vuole raccontarla. Vuole diventare una scrittrice, è la sua la voce che deve, qui, emergere, perché finora abbiamo sentito solo un debosciato troppo spaventato per amare davvero, un medico con una carenza affettiva patologica e un tombeur senza arte né parte. La storia migliore e più vera, alla fine dei conti, la conosce Bella.
Come l’appendice, l’immaginazione è un’eredità lasciataci da un’epoca primitiva, quando contribuiva alla sopravvivenza della nostra specie, ma nelle nazioni scientifiche e industriali moderne costituisce soprattutto una fonte di malattie
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