«Bisogna adattarsi». Da dove vengono questo sentimento e questa convinzione così radicati nel nostro tempo attuale? Secondo Barbara Stiegler, filosofa politica, la matrice generativa di questa condizione ha un secolo e risale agli anni che precedono e seguono la grande crisi del 1929. Le due voci protagoniste in conflitto tra loro che fondano questa convinzione appartengono entrambe alla stessa famiglia: quella del neoliberalismo.
Siamo in ritardo, dobbiamo correre, dobbiamo adattarci al cambiamento: è l'imperativo che domina ormai nella società odierna. Qual è l'origine di questa dottrina così potente e strutturata, che, basandosi sui princìpi della biologia, insiste sull'arretratezza e sulla necessità di adattarsi sempre e comunque al ritmo del cambiamento?
Da una parte sta Walter Lippmann (19889-1974) che nel 1922 con il suo libro L’opinione pubblica traccia una replica al modello democratico tradizionale. Al riconoscimento della sovranità al popolo, Lippmann sostituisce una nuova formula in cui, ferma restando una pratica elettiva, la sovranità viene ora presentata come una prassi di condivisione tra i rappresentanti e un’«organizzazione indipendente di esperti» il cui compito consiste nell’«illuminare» i decisori». Il popolo, per Lippmann, si presenta come una «massa» informe che nelle sue decisioni dipende dall’expertise di tecnici. La sua è una democrazia elitista.
Suo antagonista è John Dewey (1859-1952) che anche su sollecitazioni delle argomentazioni proposte da Lippmann riprende e amplia la sua riflessione già aperta a metà degli anni ’10 sulle procedure di inclusione culturale ed educativa degli immigrati come opportunità per pensare la costruzione dell’identità americana. Ovvero non vedendola come ripetizione e fedeltà al codice nativista delle origini, bensì come opportunità di crescita e come educazione alla democrazia dal basso.
Così al governo degli esperti, Dewey contrappone la necessità della controinchiesta dal basso come procedura per costruire coscienza pubblica.
Alla fabbricazione dei simboli e degli slogan, contrappone la necessità di tornare a riappropriarsi delle forme di comunicazione dal basso.
Alla concezione minimalista della democrazia (che suona: «ci avete votato, ora fino alla prossima elezione non disturbate il governo»: un refrain che significativamente è tornato in questi mesi, in molti luoghi, Italia inclusa), infine, Dewey rivendica la necessità che la pratica democratica sia una procedura di intervento e di intromissione quotidiana dal basso.
Dewey, a differenza di Lippmann, ritiene che dare nuova forza alla democrazia, anziché «affidarsi» e «lasciar fare», chieda di esserci.
Ci riguarda?
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