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Indimenticabile Sergio Leone

Immagine tratta dal libro "Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l'avventura di «C'era una volta in America»" di Piero Negri Scaglione, Einaudi, 2021

Immagine tratta dal libro "Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l'avventura di «C'era una volta in America»" di Piero Negri Scaglione, Einaudi, 2021

Cosa si può ancora scrivere sul regista che ha rilanciato il genere statunitense per eccellenza, che ha consacrato Clint Eastwood, che ha fondato un suo sottogenere (lo spaghetti-western, poi affiancato dal fagioli-western dell’amico e rivale Enzo Barboni, con gli immarcescibili Bud Spencer e Terence Hill) e che ha rappresentato una sterzata secca per il cinema italiano oscillante tra post-neorealismo e commedia?

Un uomo che aveva il cinema nel destino, essendo figlio di un’attrice (Bice Waleran) e di un regista (Vincenzo Leone), emersi già durante il muto e poi accantonati dal Fascismo. Se poi pensiamo che alle elementari aveva avuto come compagno di classe Ennio Morricone, era chiaro come dovesse avere la Settima Arte nel suo futuro.

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Joe, un solitario pistolero, arriva a San Miguel, una cittadina al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, dove due famiglie, i Rojo e i Morales, si fanno la guerra da anni per il monopolio del contrabbando di alcool e di armi.

Lo si nota già nel breve ruolo di un sacerdote che si ripara dalla pioggia nel Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, quindi come trovarobe, factotum e aiuto regista negli anni Cinquanta, durante i quali si fa le ossa supportando grossi calibri quali Mervyn LeRoy, Robert Wise e persino Orson Welles in un tentativo di film invero lambiccato. Questa fama di ottimo aiuto lo porterà a dirigere, con Andrew Marton e Yakima Canutt, la celebre corsa delle quadrighe nel Ben-Hur di William Wyler.

Avrà quindi una chance nel 1959 sostituendo Mario Bonnard in Gli ultimi giorni di Pompei e potrà esordire in solitaria con Il colosso di Rodi (1961), un classico peplum come si usava all’epoca, ma già ricco di azione e invenzioni visive. La svolta, tuttavia, arriverà proprio grazie a Enzo Barboni (che firmerà i Trinità come E. B. Clucher) e Stelvio Massi, che un giorno gli suggeriranno di andare al cinema a vedere un lungometraggio del giapponese Akira Kurosawa, La sfida del samurai. Leone ne rimarrà abbagliato e lo riscriverà in chiave western (cosa che gli costerà una causa legale, persa, per via dei diritti di autore non pagati a Kurosawa e al suo co-sceneggiatore), intitolandolo Per un pugno di dollari. Siamo nel 1964. Il film esce in sordina a Firenze, quindi esplode incassando una cifra enorme per l’epoca.

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Mentre divampa la Guerra di Secessione, tre uomini privi di scrupoli e di ideali vivono ai margini delle legalità: Tuco (il Brutto), Joe (il Buono), e Sentenza (il Cattivo).

Il regista cavalcherà l’onda, dando vita in sequenza a Per qualche dollaro in più (1965) e soprattutto Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Ormai affermatissimo, potrà permettersi di girare persino nell’amata Monument Valley una parte di C’era una volta il West (1968), quindi Giù la testa (1971), il suo film più politico.

Dopo non aver considerato, mal consigliato, di girare Il padrino, si cimenterà con la produzione, tornando nelle sale come regista solo nel 1984 con C’era una volta in America, un doloroso, splendido apologo sul tradimento, martoriato dai produttori in USA. Leone muore nel 1989, mentre progetta un film sull’assedio di Leningrado. Rimarremo per sempre amareggiati, non sapendo cosa avrebbe creato quell’uomo timido, completamente votato alla sacra idea di cinema come Mito.

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Jill, una ragazza dal passato burrascoso, giunge a Red Land e trova il marito, l'irlandese Bret McBain, assassinato dal bandito Frank su mandato di Morton, un individuo che vuole costruire una ferrovia nel West, dall'Atlantico al Pacifico

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