Insieme all’idea di felliniano, di paparazzo, di dolcevita, di vitellone, un ulteriore impatto avuto sulla lingua italiana – da parte del sommo regista riminese – si è verificato con l’uscita, oggi giungente al mezzo secolo di età, di Amarcord. In dialetto romagnolo significa “io mi ricordo” e nell’idioma quotidiano è diventato sinonimo di rievocazione nostalgica del passato (anche se lo sceneggiatore Tonino Guerra ne darà in seguito una lettura diversa). Questo il potere di Federico Fellini, un potere che nessun altro regista ha avuto prima, durante e – per ora – dopo.
Rievocazione della Rimini agli inizi degli anni Trenta, attraverso le vicende parzialmente autobiografiche di un giovane.
Storicamente si considera La dolce vita – e direi con buon merito – il lungometraggio più celebre del cineasta, eppure esso, subissato di polemiche, invettive e accuse di immoralità, vinse “solo” la Palma d’Oro a Cannes. Il suo autore avrebbe vinto la bellezza di quattro premi Oscar dedicati al mio miglior film straniero, nel corso di ben tre decenni, ma non con la sua opera più celebre. I premiati sarebbero infatti stati La strada (1954), Le notti di Cabiria (1957), 8 e ½ (1963) e, appunto, Amarcord (1973), molto probabilmente anche l’ultimo vero capolavoro del Maestro, nonostante anche alcune opere successive ne abbiano ulteriormente confermato la statura di artista iconico e paradigmatico.
La vicenda, ambientata negli anni Trenta, racconta in maniera corale (qualcuno potrebbe azzardare “altmaniana”, non fosse che il regista americano è stato molto probabilmente influenzato proprio dalla narrazione del collega pluripremiato) un mondo ormai dimenticato se non da chi era stato giovane a quel tempo, e si concentra sulle pulsioni anzitutto erotiche di molti dei protagonisti, su personaggi decisamente improbabili e al contempo non dimenticabili, mescolando circostanze che appaiono reali e insieme oniriche e ritagliando tipologie di soggetti a sé stanti, tutti incentrati su una specificità comportamentale, eppure tutti uniti dall’idea di sessualità spesso repressa e in ogni caso da un profondo provincialismo. Una specie di “Piccolo mondo antico” alla romagnola, per dirla con Antonio Fogazzaro.
Prova ne è il fatto che individuare un protagonista sia cosa non semplice. Vince il coro, solo che invece di essere una tragedia è una commedia, fondamentalmente. Uno squarcio divertito, nostalgico e poetico su un passato che sembra remoto, ma che così remoto in realtà non è. Il cinema di Fellini è fatto di volti e di situazioni e tenendo questo in considerazione si capisce perché ricorrere praticamente solo a caratteristi: da Ciccio Ingrassia (che urla da un albero “voglio una donna”, indimenticabile) a Pupella Maggio (attrice eduardiana per eccellenza), da Alvaro Vitali (qui all’esordio, peraltro) a Magali Noël (interprete già utilizzata dal regista).
Illuminato da Peppino Rotunno e musicato da Nino Rota, il film scorre quieto e distante dall’imponenza del transatlantico Rex, simbolo di una grandeur che l’Italia dell’epoca avrebbe invano cercato di avere, opposto perfetto delle piccolezze che resero mitica la vacuità della provincia. Altro, ennesimo, miracolo felliniano.
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