Trent’anni fa usciva nelle sale Quel che resta del giorno, forse – insieme a Casa Howard – il più celebre film girato dal sofisticato regista inglese James Ivory, incontestabilmente il numero uno per decenni per quanto concerne le pellicole tratte da romanzi ambientati nel periodo che va da metà Ottocento e metà Novecento.
La storia è imperniata sulle memorie di un maggiordomo che ripercorre quanto vissuto per decenni presso la magione che aveva l’onere e l’onore di servire.
E' il 1958. Stevens sta viaggiando attraverso l'Inghilterra. Esemplare perfetto di maggiordomo inglese, Stevens è attualmente alle dipendenze di Mister Lewis. Durante il viaggio, Stevens ricorda gli anni passati al servizio di Lord Darlington.
È importante partire dal regista, al fine di meglio capire la logica dell’opera e il perché della sua importanza. James Ivory, inglese e dichiaratamente omosessuale (un fattore all’epoca importante, per la scelta coraggiosa di alcuni soggetti, su tutti Maurice del 1987 con un giovanissimo Hugh Grant), è sostanzialmente il più grande metteur en scène di romanzi di due giganti della letteratura “in costume”: Edward Morgan Forster ed Henry James (ben sei di suoi film sono tratti da costoro). Senza dimenticare l’apporto essenziale e pluridecennale della scrittrice e sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala e del suo compagno e produttore Ismail Merchant.
Quel che resta del giorno è tratto invece dall’omonimo romanzo pubblicato dal giapponese Kazuo Ishiguro, quello che gli diede la fama internazionale prima del Nobel (collaboreranno poi ancora per La contessa bianca, non memorabile).
Vincitore del Man Booker Prize 1989 Un viaggio nella tranquilla campagna inglese si risolve in un inquietante e inaspettato viaggio dentro se stessi.
Ivory sa bene che per realizzare un’opera ambientata nel passato urgono quattro elementi chiave: un soggetto che trasporti letteralmente nell’epoca prescelta, costumi e scenografie in grado di creare l’illusione, musiche capaci di avvolgere e restituire il “profumo sonoro” adatto e soprattutto – poiché non si tratta di film ricchi di azione in senso stretto – un cast capace di governare la storia con credibilità e autorevolezza.
La sceneggiatura, neanche a dirlo, è opera della Jhabvala (che mediante la cooperazione con Ivory avrebbe vinto due Oscar per due adattamenti, Casa Howard e Camera con vista), i costumi di Jenny Beavan (tre Oscar…) e John Bright, scenografie a sei mani inclusa Luciana Arrighi, le musiche di Richard Robbins e davanti alla macchina di presa troneggiano due protagonisti al colmo della loro maestria: un Anthony Hopkins che sembra nato per recitare in quel ruolo e una Emma Thompson che dà linfa e colore a qualsiasi cosa le si muova intorno, nel rigidissimo andamento routinario della gestione. Accanto a loro, James Fox, Christopher Reeve, Hugh Grant, Michael Lonsdale e un ottimo Peter Vaughn.
Il lungometraggio, che su otto candidature agli Oscar non vinse nemmeno una statuetta, è giocato – tipico in Ivory – su toni di mesto crepuscolarismo, restituendo il conflitto di classe e gli imperativi morali tipici della società descritta, arrivando a far apparire le vite come farfalle chiuse tra le pagine di un libro, private della loro libertà e bellezza dalle costrizioni mentali diffuse in quei dati periodi e luoghi.
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