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"Prevenzione d'autore": il tumore si combatte anche con l'arte

© Fondazione Incontradonna

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Nei pomeriggi estivi dall’infanzia all’adolescenza inoltrata, con i miei cugini eravamo soliti arrampicarci sugli alberi della campagna pugliese dell’alta Murgia e letteralmente abitarli, per ore, portandoci su tutto il necessario: cuscini o gommapiuma legati alla bell’e meglio, acqua, frutta e fumetti.

Questa pratica della sospensione da terra mi è poi rimasta, così come il ricordo di quei lunghi pomeriggi sui lecci che restano tra le memorie mie più vive – se chiudo gli occhi ancora sento l’odore della corteccia. Durante la controra occupavamo un leccio immenso, lontano dalla casa, che faceva un’ombra grande e tonda a tracciare i confini di un regno e poi, prima di cena, gli alberi intorno al campo da tennis, più scomodi sia nell’arrampicata che nella seduta.

Lì c’era anche un albero scamuffo, l’unico dove riuscivo a salire – avevo sei anni e mezzo, i miei cugini più grandi invece si inerpicavano proprio in cima ai cipressi, alzavo lo sguardo e li vedevo ondeggiare a tempo di brezza estiva.
Su quest’albero bruttarello che non sapevamo essere già mezzo morto, c’erano due rami, uno più lungo e uno, posto più in alto, più corto. Ebbene su questi due legni, a tre metri di altezza, noi facevamo - finta di fare - windsurf.

Come poteva esserci venuto in mente nei primi anni ottanta una cosa simile?
Ci venne in mente perché mio nonno – che sarebbe stato proprio bene in un romanzo di Stefano Benni o in un racconto di Foster Wallace come in qualche frame di Fitzcarraldo - qualche anno prima si era fatto arrivare un windsurf dalla Germania, se ne era innamorato e ogni volta che d’estate ci trovavamo al mare metteva anche noi in piedi sulla tavola cercando di insegnarci qualche rudimento di vento e di equilibrio.
Dunque, di fatto, dove gli adulti vedevano due rametti scemi, io vedevo una tavola e un boma.

Quel tardo pomeriggio però con ogni evidenza imparai che dentro quel boma di clorofilla non ne circolava più da un pezzo, insomma, non era cresciuto come me e con me e così, se l’anno precedente potevo tenermici salda, quell’anno invece si spezzò e caddi giù - capriola in aria e crudo atterraggio.
Potevo ammazzarmi, rimanere storpia, battere la testa, rompermi il bacino o chissà cos’altro. Qualche angelo travestito da cicala deve aver improvvisamente smesso di cantare per tenermi una mano in testa, anzi, più d’una.
Mi frantumai il femore e mi bucai una caviglia che era inizio agosto ma chi se ne importa, non solo ero viva, ero miracolata. Restai ingessata dalla vita in giù per due mesi e mezzo, mi curarono anche male. In seguito ho dovuto reimparare a camminare, i primi nuovi passi li ho compiuti a Natale.

Fu esattamente durante quei mesi che senza che ne fossi sul momento consapevole, mi resi conto di cosa mi faceva bene e a cosa potevo aggrapparmi non solo per sopportare la costrizione ma per stimolarmi a guarire più in fretta: imparare a leggere, conoscere, ascoltare la musica, imparare le canzoni, scrivere.

Ancora oggi, durante i miei adulti momenti di sconforto o tristezza, i rimedi per la difesa – e l’attacco - per me sono sempre gli stessi. Non è un caso ma un imprinting, un metodo infallibile non solo di sopravvivenza quanto di ricambio cellulare.
Esistono tantissimi esempi come questi che riguardano grandi musicisti. I primi due che mi vengono in mente: Melody Gardot, artista straordinaria che soffre di dolori cronici post traumatici e poi, recentemente, Nicola Piovani, che ha raccontato del ritorno di una neoplasia e di come abbia trasformato in musica il suo percorso di cura.

Ho ripensato alla caduta dal mio “woodsurf” qualche settimana fa, quando ho partecipato a Prevenzione d’Autore, una giornata speciale organizzata al Teatro Eduardo de Filippo di Roma e negli altri spazi di Officina Pasolini - Laboratorio di Alta Formazione artistica e HUB culturale della Regione Lazio, un luogo raro e prezioso che mi annovera nel corpo docenti della sezione Canzone (ci sono anche le altre due sezioni di Teatro e di Multimediale).

La giornata è stata interamente dedicata al tema della prevenzione dei tumori con particolare attenzione a quelli che più frequentemente colpiscono le donne. L’iniziativa, organizzata dalla Fondazione IncontraDonna in collaborazione con Moby Dick - Biblioteca Hub Culturale e l’IRCCS IDI (Istituto Dermopatico dell'Immacolata), è stata costruita sulla base del tanto di considerazioni e relazioni che intercorrono tra arte e salute.
In luoghi dove la presenza di arte e espressività rappresenta il quotidiano sono stati allestite cabine dedicate a screening e consulenze gratuite per senologia, ginecologia, dermatologia, urologia e tiroide, con particolare attenzione alla fascia di età 18-35 anni, vale a dire quella delle tre classi dei ragazzi e delle ragazze che frequentano Officina.

© Francesco Colosimo e Giuseppe Chiantera

Scegliere la giornata del 21 giugno, Festa della Musica, non è un caso così come non lo è che a volere fortemente questa iniziativa sia stata Tosca, che cura tutta la supervisione artistica di Officina Pasolini:

«È molto importante che questa attenzione venga stimolata anche nei giovani, come le allieve e gli allievi dei nostri laboratori artistici. Tante persone che hanno dovuto confrontarsi con questi problemi e imparare a elaborarli, sanno che l’espressione artistica è uno strumento fondamentale per superare e affrontare la malattia».

© Francesco Colosimo e Giuseppe Chiantera

Durante la giornata si sono susseguiti incontri e confronti aperti al pubblico, presenti anche Concita De Gregorio, Valentina Farinaccio, Elisa Casseri, Elisa Fuksas che hanno raccontato e si sono confrontate sul ruolo attivo della scrittura.
Abbiamo chiuso questa iniziativa con un’ora in teatro per una lezione di canto aperta tenuta da me, Tosca e Gabriella Scalise (docente di tecnica della sezione Canzone).

Siamo passate da alcune considerazioni sulla corporeità del respiro e del suono a dei vocalizzi corali, fino a cantare e a far armonizzare La lega - Sebben che siamo donne, canzone di lotta socialista inserita poi nel repertorio delle mondine (nonché presente in Novecento di Bertolucci).
Alla fine di questo breve percorso il canto di tutte e tutti ha fatto da innesco e pulizia, livellato il sentire su un sentimento di pienezza e di condivisione viva, pulsante, paritaria. A detta dei molti presenti questo momento è riuscito se non a sublimare quantomeno a stemperare dei momenti di tutt’altro tenore che hanno visto durante la giornata anche la presenza di testimonianze strazianti, di cicatrici aperte di mancanza.

© Francesco Colosimo e Giuseppe Chiantera

La musica è percepita tra le arti come quella meno materica ma questo è parzialmente vero, le onde sonore infatti incidono sulla fisicità. Quando cantiamo per esempio mettiamo in attività la colonna del fiato che si fa suono e poi armonico prendendosi cura del corpo, della sua ossigenazione, della postura corretta, il canto inoltre connette moltissimi muscoli che in genere percepiamo in modo secondario, da quelli palatali e quelli pelvici.

Di fatto cantare – o recitare, danzare, scrivere - insegna ad ascoltarsi, ad ascoltare il corpo e il suo bisogno perché, come ha detto Michela Murgia, «io non sono la mia malattia» e l’arte – fruita o prodotta - moltiplica questa evidenza, avvicina al tempo pieno del sé più autentico e allontana dall’unica realtà di malessere percepita come possibile: se questa non è medicina non saprei dire cos’altro possa esserlo.

© Francesco Colosimo e Giuseppe Chiantera

L'arte per la salute

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