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Alla Casa del Jazz si guarda al futuro e alla cultura

© Casa del Jazz

© Casa del Jazz

A Roma, vicino alle Terme di Caracalla e alle Mura Aureliane, sta la Casa del Jazz. Si varca un cancello e ci si trova in un parco, un condensato di linee, spazi, colori e odori che sono un distillato di romanità, concetto che vado necessariamente a illustrare per i non frequentatori dell’area interna al GRA: la romanità è sia quella cosa che da un lato ogni tre per due la bestemmi così tanto che vorresti scomunicare la carta di identità che ti indica come nativo – e soprattutto residente – della capitale e dall’altra ti ammala ogni volta che, per esempio, varchi il cancello del parco della Casa del Jazz, magari ai primi di novembre, in quella che viene chiamata l’estate di San Martino o nel tempo dolce di gelsomini e rondini dell’inoltrata primavera, di tardo pomeriggio, quando la luce è talmente perfetta – perché Roma di luce è campionessa mondiale sempre in carica – che ti stordisce e stramazza e basta un nonnulla per essere trasportati in un ventre di madre che ti aspetta ma senza fretta, tutta gatta e indifferente ai destini del mondo.

È quello l’esatto momento in cui anche io, che pure fatico a scrivere il mio nome su un citofono, vengo riacchiappata dalla mano dolce di questa dipendenza di lusso, dal suo tempo immobile e stagno ritrovandomi, senza più determinazione e forza di volontà, a sospirare – arresa e conflittuale – ma santoddio, Roma, ogni volta mi freghi. Lo fai di nuovo, Roma, e sempre non appena imparo a sottrarmi ai tuoi mille accumuli di immondizia fetente – smangiucchiata da grassi gabbiani – e agli altri mille di burocrazia farraginosa, lo fai non appena posso mettere distanze di sicurezza tra me e l’impossibilità di fissare più di due appuntamenti al giorno, tra me e la tua sensuale decadenza che tu indossi su un’opulenza a volte sciatta, a volte di insopportabile, meraviglioso struggimento.

Quello è il momento perfetto di pacificazione – no, di tregua - con la mia città, con la mia esperienza di romanità, quando il primo e unico e più alto desiderio – così raggiungibile – diventa quello di una pizza a Testaccio, seduti ai tavolini all’aperto, a ordinare una birra media e un supplì al telefono per antipasto (il supplì romano si chiama così perché bisogna mangiarlo caldo e aprendolo in due la mozzarella all’interno fa il filo restando attaccata da entrambe le parti, ricordando, appunto, un telefono).

Ecco com’è, Roma. Fa così. Opporsi alla sua dipendenza, alla sua irriconoscenza, è inutile, soprattutto per i nativi fortunati come me, perché nascere invece nei posti più disagiati della capitale può non provocare esattamente il mio stesso ingorgo sentimentale.

Un anno fa ho iniziato a lavorare alla stesura del mio nuovo album avviando una collaborazione con Parco della Musica Records, label discografica legata all’Auditorium che poi è diventata la mia etichetta. La registrazione dell’album è avvenuta proprio negli studi della Casa del Jazz, che sorgono all’interno del parco e hanno recentemente riaperto i locali di foresteria. Il parco vede al suo centro sorgere un Auditorium da 150 posti dove si svolgono proiezioni e conferenze – e si ha la possibilità di una registrazione dal vivo di alto livello.

Fino a diciott’anni fa questo luogo era lontanissimo dall’ospitare musicisti e concerti. Tra il 1936 e il 1939 lo spazio venne rilevato da Arturo Osio, banchiere e fondatore della Banca Nazionale del Lavoro, che fece costruire una villa su ciò che restava di un casale seicentesco. I lavori della villa furono affidati a Cesare Pascoletti e il progetto del parco a un architetto paesaggista, il toscano Pietro Porcinai. In seguito la storia vuole che negli anni ’80 Enrico Nicoletti, cassiere della banda della Magliana acquistasse il posto tramite il vicariato di Roma (è faticoso non commentare questo fatto tirando giù dentro di me se non tutto il calendario anche solo il mese di settembre, ma farò finta di star scrivendo una pagina di Wikipedia e, dunque, non lo farò), rimaneggiando in modo invadente tutta l’architettura (ed è facile immaginare il livello di buon gusto di questo messere).

Finché succede questo: nel 1996 la villa viene confiscata e insieme ad altri immobili viene assegnata nel 2001 al Comune di Roma tramite la legge 109/96 che prende il nome dal sindacalista Pio La Torre e che dirime la gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati alle mafie. Nel 2005 questo spazio viene dunque restituito ai cittadini, diventando uno dei luoghi più importanti della realtà concertistica romana e non solo.

Ho tenuto più di un concerto alla Casa del Jazz e la sua storia ha sempre contribuito a rendermela particolarmente cara, nonostante le non poche difficoltà di gestione e manutenzione della struttura legate per lo più alla burocrazia kafkiana di cui al capitolo precedente trattante la romanità. Registrarci il disco in miracolose e serene giornate di febbraio – con mio figlio che correva in bicicletta tra i viali del parco – mi ha fatto recuperare un’appartenenza che sentivo da molti anni sfilacciata e insufficiente, ha contribuito a farmi arrendere di nuovo e a dire – anche in virtù dei passaggi al tramonto verso il Circo Massimo, poco distante da lì – «...ma santoddio, Roma…»

Cosa si potrebbe fare in Italia se ogni bene acquistato con soldi sporchi e poi recuperato venisse riciclato, convertito e offerto come cosa pubblica ai cittadini per un investimento e una visione a lungo raggio a sostegno di cultura, diritti delle minoranze, formazione e cura delle nuove generazioni? Quanto contribuirebbe a sentire davvero nostra la cosa pubblica una cosa come la restituzione di uno spazio insozzato e violato da chi non rispetta le regole di una comunità alleata e civile? Basterebbe una volontà politica. O forse “basterebbe” non avere un’età troppo adulta, troppo distante dal sogno.

A questo punto, cari lettori, come colonna sonora di questo mio primo scritto dovrei necessariamente corredare l’articolo con una canzone di una Gabriella Ferri, di un Mannarino, di uno dei due Renati della capitale (Zero e Rascel) e chi più ne ha più ne metta, oppure fare un po’ la radical chic e linkarvi I Pini di Roma, poema sinfonico di Ottorino Respighi (qui il nostro approfondimento).

Invece no. Invece metto la mia Al mare che passa, registrata il 19 febbraio di questo anno, nel live alla Casa del Jazz che ha visto debuttare il nuovo album durante i giorni della sua registrazione e lo faccio non solo perché c’è una qual certa attinenza con quello che vi ho raccontato ma perché nell’iniziare la mia collaborazione con questa testata non potevo esimermi dal presentarmi corredata da una canzone che fa

Il mare mosso mi porterà
il mare che sento
che non si calmerà
il mare è rosso
e nessuno lo sa

Leggere accompagnati dal jazz di Roma

Poesie

Di Pier Paolo Pasolini | Garzanti, 2015

La profezia dell'armadillo. Artist edition

Di Zerocalcare | Bao Publishing, 2017

La storia

Di Elsa Morante | Einaudi, 2014

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