Non c’è bisogno di leggere le decine di articoli che stanno uscendo in questi giorni su tutte le testate giornalistiche del mondo per convincersi dell'importanza di Peter Brook nel teatro contemporaneo; neanche lo spettatore più distratto potrebbe infatti non essere colpito da una carriera che non ha eguali.
Passando dall’Inghilterra alla Francia, da Londra a Parigi ha segnato la strada per centinaia di attori e aperto gli occhi a migliaia di spettatori, che potevano apprezzare un teatro diverso, mobile, aperto, semplice ma non improvvisato, lineare ed essenziale ma mai povero.
Nato nel 1925, a vent'anni Peter Brook dirige già il suo primo Shakespeare a Stratford-on-Avon; venti anni dopo, ormai acclamato come un maestro — e avendo lavorato ai classici con Laurence Olivier e Paul Scofield, adattato testi di autori contemporanei come Anouilh, Miller, Tennessee Williams e avendo anche diretto alcuni film originali e significativi — volta nettamente le spalle al teatro istituzionalizzato e imbocca una strada del tutto nuova, sperimentale, che, come scriveva Masolino D’amico «passando anche per la ricerca di una lingua teatrale primigenia, fatta di suoni elementari (il leggendario Orghost a Persepoli), si sarebbe conclusa con l'insediamento a Parigi, alla testa di un gruppo di attori di più nazioni, e la definitiva sostituzione dell'inglese natale anche se non ancestrale (i genitori di Peter Brook sono ebrei russi) con un francese accentato, neutro, proposto un po' come la nuova koiné dell'Europa artistica».
Diverse generazioni di giovani appassionati di teatro hanno “fatto i conti” con Brook, che per molti è diventato un “mito” quasi istituzionalizzato. Così come con Julian Beck e il Living Teather o Jerzy Grotowski (in Italia possiamo ricordare Orazio Costa).
Il suo Il teatro e il suo spazio insieme a Il teatro e il suo doppio di Artaud, hanno costituito una specie di Bibbia teatrale.
L'Europa, l'India, la Nigeria, Messico, Cuba, Giappone, l’Afghanistan… In giro per il mondo in una ricerca continua di conoscenza e di crescita. Al centro il desiderio costante era svecchiare, ripensare «la dimensione e la vitalità di un palcoscenico molto grande, popolato da folle enormi», rompere «con la separazione tra scienza, arte e religione, per farle confluire all'interno di un'unica esperienza osservabile e comprensibile». I ricordi di Brook sono abitati da grandi personalità: Samuel Beckett e Jean-Louis Barrault, Dalì, John Gielgud, Oliver Sacks…
Una regola assoluta della sua lunga carriera: mai perdere di vista il pubblico; «l'arte del teatro è anche la ricerca del ritmo ideale, della comunicazione perfetta». E qui forse, nella costante, concreta preoccupazione di arrivare alla gente, di stabilire un contatto con gli spettatori, Brook ha rivelato il vero segreto della forza perenne della sua opera, oltre forse alla ragione per cui “gli apostoli dell'avanguardia più tetra” lo hanno periodicamente giudicato superato; salvo quando è il caso, come avviene in occasione della scomparsa, di riannetterselo.
L'incontro della vita è quello con Natasha Perry, sua moglie: si conobbero giovanissimi al Covent Garden. Lui rimase folgorato dalla bellezza e dal nome Natasha, amato sin dalla prima lettura di Guerra e pace: «Le telefonai a casa e scoprii che era partita per Parigi, indirizzo sconosciuto. Presi subito un aereo e quando arrivai corsi alla centrale della polizia francese al Quai des Orfévres per tentare di scoprire in quale albergo fosse registrata... Quando mi presentai trionfante, romantico e possessivo, questo eccesso di zelo non soltanto non fu gradito, ma portò a un anno di incomprensioni».
Con la creazione del Centro internazionale di ricerca teatrale, con la scelta d'una sede parigina (Bouffes du Nord), si affermano “lo studio del metodo, le vaste compagnie-laboratorio popolate da interpreti d'ogni nazionalità e lingua: le caratteristiche che rendono tanto unico e originale il lavoro di Peter Brook, tutte le tensioni, i tormenti e le filosofie che lo nutrono”.
Se vogliamo ricordarlo con un’opera-simbolo, possiamo volgere lo sguardo al Mahabharata. Nel 1985 il poema approda sul palcoscenico del Festival di Avignone e nel 1989 la versione cinematografica inaugura la Mostra del cinema di Venezia.
Dopo l'edizione teatrale che, quando veniva rappresentata nella sua interezza durava nove ore e dopo il film che ne dura più di due, ci fu anche una versione televisiva di cinque ore e mezza. Interpretato da un gruppo multinazionale comprendente sedici paesi tra cui, unico italiano, Vittorio Mezzogiorno, il film è la sintesi di una visione della messa in scena, la miglior testimonianza possibile del suo lavoro.
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