Di Paul Ginsborg, mancato poche ore fa all’età di 76 anni, ci resteranno sicuramente due cose: una dimensione civile di opposizione, propria degli intellettuali radicali dei paesi anglo-sassoni e diversa dal modello dell’estremismo di quelli in Italia; e una dimensione di indagine storica, dove il rapporto cittadino/Stato non riesce mai a emanciparsi davvero dalla figura tra potere e suddito.
Ma quello sguardo, o quella sensibilità, avevano una storia, non erano la semplice traduzione in storiografia di una passione politica. Comunque, non erano solo militanza e, per certi aspetti, seguivano un percorso opposto.
Per Paul Ginsborg è importante la lettura di formazione di Antonio Gramsci e delle sue tesi sul Risorgimento italiano, che potremmo riassumere in tre nodi:
1) il Risorgimento come rivoluzione «passiva», perché le classi subalterne della società italiana furono escluse dalla rivoluzione borghese nazionale;
2) l'importanza della lotta per il potere e il trionfo dei monarchici liberali sui loro oppositori, i repubblicani e i democratici;
3) la grande divisione fra città e campagna.
È da questi tre punti che Ginsborg sviluppa la sua prima ricerca. In particolare, si sofferma sulle vicende della Repubblica veneziana, studiando la figura di Daniele Manin (il libro, con il titolo Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848–49, è pubblicato da Feltrinelli nel 1978; da Einaudi nel 2007; da Cambridge University Press nel 1979). Segna la seconda generazione di studiosi inglesi del Risorgimento italiano, dopo quella di Denis Mack Smith, ma ne inaugura anche una nuova. Sono questi, studiosi anglosassoni che scelgono l’Italia come campo di indagine e non si occupano più solo di Storia moderna (ultimo in ordine di tempo John Foot di cui è in uscita Blood and Power. The rise and Fall of Italian Fascism).
La sua produzione storiografica - che aveva come oggetto di studio tali argomenti - pone il problema del profilo culturale, politico, mentale, oltreché sociale ed economico, della società italiana.
Il tema non è solo il compimento dell’Unità nazionale, ma l’indagine sulle forme che in Italia connotano il processo di modernizzazione. Ovvero, come il modello di sviluppo, in cui resta centrale l’economia, riconosca un ruolo non indifferente alle macchine culturali, ai processi di convinzione e dunque le azioni, le ideologie politiche, l’immaginario sociale in una parola.
Per esempio, uno dei temi è la famiglia e Ginsborg lo indaga donandoci una storia del ‘900 europeo molto originale. Mette al centro quella che è l’istituzione fondamentale di formazione del cittadino, non limitandosi unicamente all’Italia. Studia, infatti, altri contesti nazionali inquieti del ‘900: la Russia, nel passaggio dall’Impero allo Stato sovietico; la Turchia, dall’Impero ottomano alla Repubblica; la Spagna tra Repubblica e guerra civile; la Germania, da Weimar allo Stato nazista.
Un profilo che fa del caso italiano non un’“anomalia”, ma un contesto che rispecchia, con storie proprie e con problematiche specifiche, i tormenti e i processi di trasformazione delle società “ordinate” dell’Ottocento, nel turbolento ‘900 e nel tempo attuale.
Uno sguardo amorevole ed esigente, il suo, attento anche ai profili mobili delle passioni collettive, cui non a caso Ginsborg aveva richiamato l’attenzione in uno dei suoi ultimi libri – Passioni e politica, scritto con Sergio Labate –, nella convinzione che quanto più sapremo prestare un interesse minuto e programmatico alle passioni che circolano fra noi, tanto più potremo re-imparare a essere democratici. Perché è importante conoscere le passioni e non abbassare la guardia anche nei confronti di quelle positive – la compassione, l’inclusione, l’amore –, perché non diversamente dalle altre, anche queste sono capaci d’inganni e d’insidie. Per poter riacquistare fiducia nella politica, può essere utile, sosteneva Ginsborg, cominciare a inventare insieme un alfabeto inedito, fatto anche di scelte non fideistiche, ma critiche. Forse una eco lontana di quello sguardo scettico inglese di cui non aveva mai perso memoria.
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