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I 45 anni di "Manhattan": il cult in bianco e nero di Woody Allen

Due anni prima – finalmente – il suo talento aveva dato vita a un film in grado di sbancare alla notte degli Oscar: “Io e Annie” (1977). Miglior film, regia, sceneggiatura originale e attrice protagonista, quella Diane Keaton riproposta anche in “Manhattan”. Invece di proseguire sulla strada della commedia verbosa basata su idiosincrasie, amori e controsensi (il suo marchio di fabbrica), aveva deciso di omaggiare il regista che più amava – ovvero Ingmar Bergman – girando “Interiors”.

Io e Annie (DVD)
Io e Annie (DVD) Di Woody Allen

Un attore ebreo, in analisi da svariati anni, s'innamora a New York di una originale ragazza di buona famiglia.

Si trattava di un dramma degno del maestro svedese, ma il pubblico vedeva in Allen la comicità pura, come quella degli esordi (“Prendi i soldi e scappa”, “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, “Il dormiglione” etc.) o la commedia sospesa tra screwball e sophisticated, tipo “Io e Annie”, appunto. Incassato un ritorno economico ridotto, decise quindi di tornare alla sua cifra stilistica più marcata e confezionò “Manhattan”.

Decise in compenso di puntare sul vezzo di girare in bianco e nero, affidandosi all’eccellente e fidato Gordon Willis, che già era diventato celeberrimo per via de “Il padrino”.

Saccheggiò George Gershwin per la colonna sonora, da “Rapsodia in blu” a “Strike Up the Band” e diede un ruolo di rilievo alla giovanissima Mariel Hemingway (minorenne e per un breve periodo sua fidanzata, di nascosto), nipote di Ernest e qui candidata all’Oscar.

Manhattan
Manhattan Di Woody Allen

Intellettuale di successo, abbandonato dalla moglie s'innamora di una donna che sta con un suo amico. La relazione non dura molto e l'uomo si lega ad una ragazza giovanissima, ma è condizionato dalla differenza d'età. Incoraggia perciò la ragazza a partire per l'Europa.

Il regista statunitense cesellò una New York che resterà per sempre nell’immaginario comune: scorci romantici, caos organizzato, marciapiedi e natura, interni di case, panchine e negozi. Una specie di pubblicità gratuita della Grande Mela, una dichiarazione d’amore sperticato, una vera e propria ode alla propria città, più precisamente a una parte di essa: Manhattan, appunto. Per chi volesse visitare i luoghi più celebri, ivi immortalati, basti pensare a Central Park, il MoMA, il ponte di Queensborough, ma anche a luoghi abitualmente frequentati da Allen stesso, come il ristorante Elaine’s Cafè, la pizzeria John’s oppure il negozio Dean and De Luca.

L’opera ruota intorno a uno sceneggiatore di origini ebraiche (Isaac Davis) che è travolto da incertezze sentimentali e da frustrazioni di vario genere, non a caso interpretato dallo stesso Allen, e scivola via nei consueti 90’ del suo autore, trascinando gli spettatori in un’esistenza che vive di emozioni trattenute o esplose, di fiumi di parole che diventano corsa forsennata, di un solo istante in cui Allen – fautore di sorrisi e risate – si concede infine un solo, unico, indimenticabile, momento di subitanea pace: il suo stesso primo piano finale, dove quasi con fatica increspa le labbra nel tentativo di superare il suo stesso essere complicato, in qualche modo arrendendosi. Senza ombra di dubbio uno dei cinque film più belli e iconici di Allen: per Village Voice “l’unico vero grande film americano degli anni Settanta”.

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