Il 7 giugno del 1843 moriva a Tubinga Friedrich Hölderlin, dopo essere sprofondato per molti anni (trentasei) in uno stato di follia. Leggere oggi l’autore tedesco non è facile: è un poeta che non concede nulla alla leggibilità. Chiede e pretende di immergersi in un ordine di pensieri abissalmente profondo. Hölderlin è stato l’autore di una grande teogonia: ha cioè cantato la presenza del divino, proprio in un mondo moderno che dal divino andava sempre più allontanandosi (e tanto più sarebbe stato così nel tempo della sua posterità). Siamo quindi con questo poeta nel cuore di un dramma.
Ecco perché c’è nella poesia di Hölderlin l’appello a una civiltà che va come sgretolandosi, disfacendosi sotto le forme severe, i ritmi solenni eppure sincopati, franti, delle sue composizioni: inni, elegie, odi, spesso scritte e riscritte, in una ricerca affannosa senza sicuro approdo.
Dapprima il poeta si tende al mito della grecità, al divino diffuso nel cosmo, nella natura, e canta il progressivo inabissarsi del volto divino dal mondo («Dèi andavano un tempo tra gli uomini, le magnifiche / Muse e il giovane, Apollo […]» si dice in un frammento risalente probabilmente al 1799). Si legga allora la grande elegia Pane e vino, nella prima stesura (cito qui e altrove la traduzione di Luca Crescenzi, edita da Rizzoli): «Ma troppo tardi giungiamo, amico! Gli dèi certo vivono / Ma sul nostro capo lassù in un altro mondo».
Siamo all’inizio del settimo movimento dell’elegia ed ecco il sentimento di un essere fuori tempo, esclusi dalla bellezza e dalla verità che un tempo alitarono sul mondo e che ora si sono come ritirate, lasciando gli esseri in una condizione di immedicabile povertà. Infatti alcuni versi dopo si dice: «[…] e perché poeti in tempo di privazione?». Si può dire che tutta una configurazione della poesia moderna, quella che potremmo chiamare la condizione di orfanità del poeta, trovi qui la sua giustificazione. E infatti afferma ancora Hölderlin in Alla sorgente del Danubio: «Certo noi andiamo quasi come gli orfani».
Intanto però, già nell’elegia Pane e vino, si fa presente al poeta, ricorre e si impone nella sua scrittura teologale, il mistero del Dio che si fa uomo, di Cristo. Da allora in poi Hölderlin si struggerà al fuoco di un disperante, grandioso aggiogamento: la Grecia classica e il cristianesimo, le divinità degli elementi naturali e il Dio che si incarna tra le sue creature, con un approfondimento progressivo del pensiero cristologico.
Esso culmina nella grande composizione intitolata Patmos, con al centro la figura dell’evangelista Giovanni, autore anche dell’Apocalisse, il discepolo amato da Gesù. Il testo così comincia nella prima stesura: «Vicino / E difficile a cogliersi è il Dio». Il campo che si apre alla ricerca del poeta moderno dopo Hölderlin è arduo: pochi ne hanno percepito l’ardore come, nella nostra tradizione, Mario Luzi, soprattutto nella sua stagione ultima. A Luzi si deve una ripresa della generosa inquisizione del poeta tedesco, fino a vedere riunite in Cristo anche le forme classiche della divinità («E intanto, / anima mia, terribilmente / il divino è in ogni parte, / non c’è luogo a decifrarlo, / brucia d’amore e di dolore / sposato alla nostra stessa sorte / col vino sanguinoso / profuso da quel vivo / e sempre agonizzante Dioniso… / Così / pensano nelle loro angustie…», brano finale di Perché ci parlano i numi dalla raccolta Frasi e incisi di un canto salutare, 1990). Ecco: è la prova che Hölderlin è ancora vivo e bruciante nel nostro tempo, necessario nella sua altissima inchiesta.
Di
| Feltrinelli, 2017Di
| Garzanti, 2005Di
| Bompiani, 2015Di
| Mondadori, 2019Di
| Abscondita, 2021Di
| Ponte alle Grazie, 2023Di
| Edizioni ETS, 2010Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Feltrinelli, 2018Potrebbero interessarti
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