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George Gershwin: un innovatore della musica

Immagine tratta da "George Gershwin Remembered" di Peter Adam, 1987

Immagine tratta da "George Gershwin Remembered" di Peter Adam, 1987

Sali su un taxi, chiedi di abbassare il volume della radio, l’autista è gentile ma non coglie fino in fondo il senso della richiesta. E così il volume si abbassa, sì, ma la musica non scompare: se ne vanno i bassi, l’armonia, se ne va persino la voce della cantante ma rimane il ritmo, il kun-zi kun-zi della batteria, fatto di frequenze acute, che arrivano alle orecchie anche solo con un minimo di potenza dell’amplificatore. Lui non se ne accorge, come fanno quasi tutti i non-musicisti: pensa di esser circondato dal silenzio. È l’abitudine. Pazienza.

Ora, quel ritmo, la presenza ubiqua di pulsazioni, lo scandire il tempo marcandone le unità, è da un secolo il vero caffè della nostra esistenza. La droga allegra, leggera, senza la quale fatichiamo a carburare. Lo abbiamo importato dall’Africa, attraverso gli Stati Uniti, lo abbiamo semplificato e ne abbiamo fatto una presenza stabile, inevitabile, del nostro panorama sonoro.

Vale la pena ricordarselo, quando si pensa al successo della Rhapsody in blue di Gershwin, il brano che nel 1924 ha cambiato per sempre la storia della musica, trovando il modo di fondere con efficacia la tradizione classica e il jazz. Perché nessuno dei compositori di sinfonie e quartetti aveva colto questa nostra nuova necessità; e rispetto a quello che fece Gershwin, rispetto alla gioia di farsi attraversare da ritmi chiari ma eccitanti, facili da riprodurre ma pieni di invenzione, gli eredi di Mozart e Beethoven sembravano studenti al primo anno di Conservatorio.

Rhapsody in Blue (Deluxe Edition)
Rhapsody in Blue (Deluxe Edition) Di George Gershwin,Stefano Bollani,Riccardo Chailly,Gewandhaus Orchester Lipsia

Un'opera indimenticabile di George Gershwin, suonata da Riccardo Chially e Stefano Bollani

La tradizione tardo-ottocentesca e le sue propaggini di inizio Novecento non aiutavano: Brahms, Bruckner, Grieg, ma anche Mahler o Ravel scrivevano musica meravigliosa investendo però sull’armonia, quasi sempre raffinatissima, e sulle strutture, sulle relazioni tra le parti di forme ampie, complesse. La musica aveva un suo ritmo – non esiste musica che ne sia priva; ma non era quella la sua arma migliore.

Stravinskij sì, certo, sul ritmo aveva costruito le sue partiture: lavorava però su ritmi sghembi, legati alle tradizioni dell’Europa dell’Est, ritmi continuamente cangianti, sorprendenti, aggressivi, spettacolari ma scomodi: provate a battere il piede a tempo ascoltando Le sacre du printemps e ve ne accorgete.

Anche Debussy aveva rotto i ponti con i ritmi semplici e un po’ noiosi dell’Ottocento, inventandosi figure morbide, frasi evanescenti, articolazioni di accenti in sé bellissime ma, di nuovo, impossibili da seguire con il corpo, da pensare come danza immaginaria, da canticchiare uscendo dalla sala da concerto. E sul ritmo investivano Prokof’ev e Bartók, con esiti affascinanti, innovativi, curiosi ma, ancora, non avevano saputo regalare all’ascoltatore il piacere di un flusso elettrizzante, vario ma regolare, sexy ma raggiungibile.

La materia, insomma, non era certo nuova, o oscura; sembrava però di importanza secondaria, era una delle tante. D’altronde in Europa abbiamo litigato per secoli su come strutturare l’armonia, su come giocare con le tonalità, e non sul modo più efficace per costruire il ritmo della musica – ancora oggi, per fare un complimento a un compositore vivente che scrive musica gradevole, l’ascoltatore medio gli dice «che bello, è tonale!», cioè erede della tradizione anziché delle vecchie avanguardie atonali, e nemmeno si chiede quali siano le strutture ritmiche del pezzo che ha appena ascoltato, come siano disposti gli accenti, se ha dentro un po’ di elettricità o sia magari immobile.

Così, quando sulla scena arriva Gershwin (che nasce il 26 settembre 1898), quando dal suo mestiere di autore di canzoni e musical fa il salto alla sala da concerto scrivendo la Rhapsody in blue e poi il Concerto in fa per pianoforte e orchestra o Un americano a Parigi, il compositore non si limita ad allargare a organici sinfonici quello che il jazz era solito fare con pochi strumenti: crea strepitose ibridazioni che entusiasmano il pubblico, offrendogli la possibilità di incontrare il fasto, la cura meticolosa, l’imponente tradizione della musica classica insieme a ritmi accattivanti, frasi scoppiettanti ma facili da seguire, melodie che hanno addosso l’immediatezza dello swing ma sono capaci di un respiro ampio.

Da allora, non c’è dubbio, siamo tutti un po’ più ricchi.

 

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