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Brahms, gli inganni di un compositore

«Le piace Brahms?» è un titolo perfetto. E non solo perché suona bene. Se per il suo romanzo Françoise Sagan avesse scelto «Le piace Mozart?» o «Le piace Webern?», infatti, non sarebbe arrivata al punto.

Mozart, per dire, piace a (quasi) tutti. La sua musica è fresca, rassicurante, d’accordo, ma è soprattutto costruita secondo una logica di sviluppo che, anche in modo inconscio, l’ascoltatore segue con facilità. I temi sono chiari, evidenti, semplici da memorizzare. E le loro trasformazioni – perché di temi trasformati è fatta la musica di quel periodo – sono meravigliose proprio perché se ne coglie il disegno, la tecnica: riconosciamo l’originale e lo sovrapponiamo mentalmente alle sue nuove declinazioni, trovando appagamento e vera e propria gioia nel veder nascere davanti alle nostre orecchie un disegno complesso ma con una logicità cristallina. Chiedere «Le piace Mozart?» sarebbe stato come domandare a un bambino se gli piacciono le patatine fritte.

Webern, invece, icona della tecnica dodecafonica e seriale, non piace (quasi) a nessuno. La sua musica è avara di gratificazione sensoriale: non ci sono melodie, ritmi, armonie o soluzioni strumentali che inseguono un’idea di bellezza. Per di più, la logica con la quale costruisce le sue partiture è ammirevole se la si studia a tavolino, in modo analitico, ma non risulta percepibile a orecchio. Per cui gli estimatori della sua produzione esistono, per carità, ma sono davvero pochi, e chiedere «Le piace Webern?» sarebbe stato come domandare «Non le piacerà mica Webern, vero?».

Puntare su Brahms significa invece porre una domanda profonda, per la quale non si prevede un esito scontato. Perché la musica di Brahms è un inganno; ed è inutile fingere che non sia così.

Il fatto è che, ad ascoltarla per qualche istante, una sua partitura si presenta come una dolce, intensa pagina romantica. Tocca subito il cuore, il cervello, la pancia (Brahms sapeva inventare temi memorabili). E dunque l’ascoltatore si sente legittimato ad azionare il pilota automatico, a lasciarsi andare come si fa con un Valzer di Chopin, dove ogni cosa è melodiosa e straordinariamente chiara, o con un pezzo di Schumann, dove è tutto un gioco di passione, di slanci, di languori, e se l’articolazione del discorso si fa poi imprendibile, arzigogolata, persino confusa, non è un problema perché tanto ormai ci si è abbandonati al flusso.

Ecco, con Brahms non funziona. Lui simula la chiarezza, l’evidenza; induce a pensare che il discorso procederà come se si trattasse di Mozart o di Beethoven (che lui venerava) ma poi, non appena il cervello dell’ascoltatore crede di aver trovato la giusta postura, la sua musica sterza e fa mancare il pavimento sotto i piedi. Mentre gli altri distendevano un tema, ben tornito, proporzionato, e poi lo riprendevano, e poi ancora gli inventavano una risposta in un procedere logico, chiaro, Brahms lavora infatti i temi al loro interno e lo fa subito, nel momento stesso in cui li fa ascoltare, creando strutture asimmetriche, inconsuete, dentro le quali le melodie hanno sbrodolature, code, ripetizioni interne; non a caso mentre la prosodia tradizionale procede per multipli di quattro battute, lui spesso inventa frasi che ne occupano cinque, sei, per fare spazio al quel lavorio di trasformazione inarrestabile.

Così, mentre noi ci aspettiamo di ascoltare figure, profili chiari, con un capo e una coda – perché il suono della sua musica, l’aspetto esteriore ce lo fa pensare –, Brahms applica una logica costruttiva fondata sull’elaborazione continua, geniale ma complessa da seguire, strepitosa negli esiti (la sua musica è bellissima, senza eccezioni) ma alla quale bisogna rispondere con una performance d’ascolto che non tutti abbiamo voglia di attivare.

Per questo «Le piace Brahms?» è una domanda seria, profonda, alla quale è legittimo rispondere come si vuole. Lui, che era nato ad Amburgo il 7 maggio 1833, esattamente 190 anni fa, ha fatto la sua parte; adesso tocca a noi.

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