Diario di bordo

Memoria

Giovedì 27 gennaio - Il Giorno della memoria, in ricordo di Giorgio Perlasca

Una delle più belle leggi votate dal parlamento italiano è concisa e impegnativa.
Fu appprovata nel luglio 2000, all’unanimità, su proposta del deputato Furio Colombo.

Eccone il testo completo:

Art. 1.
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2.
In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere.

Da quel giorno di 22 anni fa, in particolare nelle scuole e in televisione si ricorda la Shoah.
Era importante allora, è ancora più importante oggi, in cui venti orribili di antisemitismo, di negazionismo, di banalizzazione sono all’ordine del giorno. Se si pensa a quello che gira sui social network, se si pensa che Liliana Segre ha dovuto girare sotto scorta, se si pensa alle magliette inneggianti ad Auschwitz indossate dai manifestanti all’assalto del Campidoglio americano; se si pensa all’Ungheria e alla Polonia di oggi che dell’olocausto vietano di parlare, se si pensa ai no vax che si paragonano agli ebrei…davvero c’è bisogno di una giornata della memoria.
Una riga di quella legge mi è molto cara, quella che dice ricordiamo “coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”; mi è cara perché penso di aver contribuito alla stesura della legge scrivendo il libro di cui vi voglio parlare. Si chiama “La Banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca” e lo pubblicò Feltrinelli trent’anni fa. È la storia di un italiano, un commerciante di bovini di fede fascista che si trovò in Ungheria nel momento della massima ferocia della deportazione degli ebrei ungheresi, sotto gli ordini di Adolf Eichman.
Giorgio Perlasca non era nessuno, ma era un “essere umano” che vedeva quello che stava succedendo: le razzie, le uccisioni, i treni piombati che partivano. Era stato volontario fascista in Spagna e ora la Spagna di Francisco Franco era neutrale nella guerra, anzi proteggeva gli ebrei di origine spagnola. Perlasca si recò alla legazione spagnola di Budapest e chiese di “poter fare qualcosa”.
Fabbricò migliaia di documenti falsi, si adoperò per alloggiare ebrei in case protette dove organizzò una resistenza, addirittura si sostituì al console spagnolo, diede credenziali false di diplomatico e ottenne direttamente dai nazisti la salvezza del ghetto di Budapest.
Poi tornò in Italia, cercò di raccontare la sua storia, ma nessuno gli diede ascolto.
Fu scoperto, in Ungheria nel 1989, dalle persone che aveva salvato e che volevano ringraziarlo. Fu premiato a Budapest e in Ungheria, ma in Italia era sconosciuto. Quando lo incontrai era già molto vecchio, e povero, nella sua casa di Padova.
Gli chiesi: “Perlasca, perché lo ha fatto?” e lui candidamente mi rispose: “Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?”, facendomi capire che in tutti c’è un senso di giustizia, in tutti c’è coraggio, in tutti c’è la voglia di reagire alla barbarie.
Per questo mi piace quella frase della legge: “per quelli che hanno fatto… anche in campi e schieramenti diversi… a rischio della vita”.
Non era una questione politica, non era una questione religiosa, non era una questione ideologica.
Era un’avventura, e non c’è niente di più bello che rischiare la vita per proteggere i perseguitati.
Nei due anni che seguirono, tra la sua “scoperta” e la sua morte, Giorgio Perlasca andò spesso a parlare nelle scuole e i ragazzi lo ascoltavano rapiti. E si vedevano come lui, eroi ragazzi. E si capiva che se fosse successo a loro qualcosa del genere, ora avrebbero saputo cosa fare. Mi fa piacere pensare – e in realtà so che è così – che quella legge sia stata scritta anche pensando a Giorgio Perlasca e al suo esempio.

 

 

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