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Le donne e i soldi: un tabù ancora da superare

Quando io e il mio compagno andiamo a cena fuori, scegliamo di dividere equamente le spese: una volta pago io, una volta paga lui. Non mi sono mai sentita a disagio né tantomeno mi sono chiesta se questo metodo sia adeguato, perché è l’unico che conosco per vivere in equilibrio all’interno di una relazione.

Quando però succede che sia io a offrirgli una cosa in più, se al momento di pagare prova a rifiutare e tira fuori il portafogli, chi sta dall’altra parte del bancone – uomo o donna è indifferente – non ci pensa due volte e afferra il bancomat del mio compagno. La risposta che quasi sempre, tra un sorriso e un’alzata di spalle, ricevo di fronte alle mie insistenze è: signora, ma secondo lei posso mai accettare di far pagare una donna quando è l’uomo che deve offrire?

Mi cadono le braccia. Il grande sottinteso è sempre quello: sei una donna, da quando in qua se esci con un uomo paghi tu? Ma soprattutto: sei una donna, da quand’è che ti interessi di soldi?

Vorrei rispondere: da sempre, perché sono cresciuta in una famiglia in cui era mia madre a mantenere tutti. Conosco il valore dei soldi e conosco il valore della fatica, conosco il lavoro e il significato della parola sacrificio. Sono figlia di una donna che ha sempre portato a casa un ottimo stipendio dopo tante ore di fabbrica, e so perfettamente quanto valgono i miei soldi, quanto valgo io, quanto vale la mia professione.

Ma c’è una cosa che ancora oggi mi lascia basita, una cosa che ho visto fare anche a mia madre e di cui mi sono resa veramente conto leggendo l’ultimo libro di Annalisa Monfreda, Quali soldi fanno la felicità? Perché le donne non sono pagate abbastanza e altre domande audaci (Feltrinelli). Che valore ha il gesto di chi paga? Che ruolo riveste, socialmente parlando, la persona col portafogli in mano?

Quali soldi fanno la felicità? Perché le donne non sono pagate abbastanza, e altre domande audaci

Quando decide di lasciare il lavoro dipendente, Annalisa Monfreda si avventura in una conversazione inedita con il suo estratto conto. Si accorge che per lungo tempo ha considerato il “non parlare di soldi” una qualità morale, senza mai domandarsi quali conseguenze avesse.

Molti anni dopo la separazione, mia madre – in occasione del suo cinquantesimo compleanno – offrì la cena a parenti e amici più stretti, compreso mio padre (con cui è sempre rimasta in buonissimi rapporti); quando arrivò il momento di pagare, lei tirò fuori il suo bancomat e lo allungò di nascosto all’uomo dal quale si era divisa molto tempo prima. La sentii dire vai tu a pagare. Rimasi perplessa. Perché lasciava che fosse lui a compiere quell’azione, così che gli altri potessero vederlo, se i soldi erano i suoi?

Una cosa simile la racconta proprio Annalisa Monfreda (felicemente sposata e con un conto in banca in comune, ma il suo stipendio è superiore a quello del marito), e allora mi sono domandata quante volte le donne – quelle che offrono, quelle che guadagnano più dei compagni – si sentono in dovere di lasciare all’uomo il diritto di quel gesto. Cosa vuol dire avere il potere sulla gestione del denaro? Cosa vuol dire, in termini sociali, ricoprire il ruolo della persona che si può permettere di, che può tenere tutto sotto controllo, da cui l’altro appare necessariamente dipendente?

Parte da questo pensiero la riflessione più ampia che si dipana nell’intero saggio di Monfreda e che ha preso piede nella mia testa, oltre a un incontrovertibile dato di fatto: le donne guadagnano e hanno sempre guadagnato meno degli uomini. Ma perché? Per quale motivo il mercato ci attribuisce un valore professionale inferiore?

Premettiamo innanzitutto che, come ricorda Monfreda, le differenze tra uomini e donne si misurano soprattutto all’interno dello stesso campo, e che salendo nella scala gerarchica dei settori ad alto valore, le donne quasi scompaiono. Se pensiamo al settore dello spettacolo la disparità diventa addirittura imbarazzante, perché in questo caso gli uomini arrivano a guadagnare più del 62 per cento in più rispetto alle donne.

La cosa sconcertante è che non solo si tratta di una questione vecchia come il mondo, ma è addirittura peggiorata dopo l’avvento della Rivoluzione industriale (lo so, più di qualcuno fatica a crederci, me compresa). Ce lo spiega benissimo Monfreda, avvalendosi del supporto di autrici e studiose come Silvia Federici e Claudia Goldin:

La svalutazione del lavoro femminile nasce con la rivoluzione agricola assieme al patriarcato e accompagna la storia dell’umanità da allora fino a oggi.

Se è vero che grazie alla terra da coltivare, alle risorse naturali e ai beni comuni, la donna non era mai stata davvero povera nemmeno nella società feudale – anche perché l’attività domestica (cucinare, lavare, mantenere la casa, accudire i figli) non veniva svalutata – è altrettanto vero che con l’espropriazione della terra ai contadini le cose cambiano. Si procede verso l’economia monetaria e quindi i rapporti di lavoro sono regolati da un salario. Ecco che l’attività domestica perde consistenza: non è retribuita con le monete e quindi non è più un lavoro vero e proprio.

Le donne iniziano a perdere numerosi diritti, non ultimo quello di ereditare un terzo delle proprietà del marito e, soprattutto se nubili, vengono totalmente escluse dal possesso. In sostanza, viene negato loro il diritto alle arti, ai mestieri e l’accesso diretto al denaro, in più il lavoro riproduttivo perde di senso: donne uguale povertà.

Il capitalismo impone, perciò, una legge ben precisa: gli uomini producono, le donne riproducono. Ma fare figli non è un lavoro, e la povertà diventa un fatto femminile.

Ancora oggi le donne sono costrette a scegliere: o lavori (se proprio devi…) o fai figli. Se lavori, fare figli è un tradimento verso la professione (tanto più oggi, che vige la legge del lavoro come passione e abnegazione). Se fai figli e non lavori sei una mantenuta. Se fai figli e vuoi anche lavorare farai due cose contemporaneamente e male: non puoi star dietro ai figli come una brava mamma se possiedi l’ambizione di fare carriera.

Se scegli di non fare figli, beh. Che donna sei?

Io sono Marie Curie
Io sono Marie Curie Di Sara Rattaro;

Parigi, 1894. Mentre si immerge nelle intricate ricerche per la sua seconda laurea in Matematica, dopo aver conseguito quella in Fisica, Marie s'imbatte in Pierre, un animo affine in grado di decifrare la sua mente complessa.

Ci raccontano sempre che nella vita si sceglie, che le donne scelgono in libertà esattamente come tutti gli altri. Sbagliato. Le donne scelgono, spesso ancora oggi, perché costrette a rinunciare a qualcosa (non possono mica voler tutto e pensare anche di farlo bene), e pure quando scelgono senza condizionamenti hanno comunque un margine di errore altissimo. Pensateci bene: a quale uomo viene detto o fai figli o lavori? Bravi, a nessuno.

Questo accade anche per ciò che riguarda i soldi. Perché, dicevamo, la Rivoluzione industriale è considerato il momento di maggior povertà per le donne? Perché il lavoro avido scrive sempre Monfreda mal si concilia con l’attività di cura.

 

È in questo momento che nasce un’assegnazione di compiti che dura ancora oggi: gli uomini mantengono la famiglia e le donne se ne prenderanno cura.

Trae origine da qui la convinzione – più che sbagliata – che il denaro non è per donne, che parlarne sia addirittura volgare. Come è accaduto per la scrittura, per lunghissimo tempo un affare da uomini; come è accaduto per i ruoli manageriali, ancora oggi faticosamente affidati alle donne; come accade per tantissimi ambiti che non siano racchiusi fra le quattro mura di casa.

 

Le donne sono spendaccione, le donne non sono brave a far di conto, la matematica è un gioco per soli uomini (figuriamoci la scienza, la storia di Marie Curie – per citarne una – ha molto da raccontare a riguardo, con i suoi due Premi Nobel – a tal proposito, Sara Rattaro racconta nel dettaglio questa storia di lotta e rivincita nel romanzo Io sono Marie Curie, Sperling & Kupfer). Insomma, ancora una volta ci troviamo di fronte a una presunta inadeguatezza tutta femminile, e ancora una volta dobbiamo trovare le parole giuste per giustificarci e per dimostrare di essere capaci.

 

Ma non abbiamo più voglia di dimostrare, avremmo e abbiamo solo voglia di fare, se necessario anche più cose in contemporanea. Sarebbe sufficiente conquistare la libertà di non sentirci giudicate.

Ma questa è un’altra storia ed è troppo lunga per essere raccontata oggi.

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