Quando avevo programmato di scrivere questo articolo, Giulia Cecchettin ancora non era scomparsa, né qualcuno aveva ritrovato il corpo. Quando stavo per mettermi a scrivere, Giulia era già scomparsa. Lei e il suo ex, insieme. Mentre scrivo questo articolo – e di giorni ne ho fatti passare, perché qualcosa di grande stava per succedere – il corpo di Giulia è stato ritrovato, l’ex fidanzato Filippo Turetta ha ammesso le sue responsabilità, e noi tutte lo sapevamo. Ho, abbiamo aspettato, ma eravamo coscienti di come sarebbe andata a finire.
Nel frattempo, ci siamo affrettati a parlare di educazione sentimentale, a partire dalle scuole. Anche io, proprio qui, ne ho scritto non molto tempo fa ma mi sono chiesta, oggi, se non fosse necessario qualcos’altro, di più tempestivo, di urgente, perché mentre ragionavamo sul da farsi, di cose ne sono successe altre: Cecchettin è scomparsa l’11 novembre e da quel giorno è stata uccisa una donna di sessantasei anni a Fano, strangolata dal marito (20 novembre); a Erba una ragazza di venticinque è stata sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato, che aveva il divieto di avvicinamento (21 novembre); una terza donna di sessantasei anni è stata uccisa dal marito a colpi di mazza da cricket, per strada, in centro a Salsomaggiore Terme. Data: 28 novembre.
Quante sono le donne uccise dal proprio marito, ex compagno, amante o fidanzato? 105 con Cecchettin. Quindi, ora? 107. Magari, tra qualche minuto, 108. Il conto non si tiene più.
C’è però un elemento che della vicenda di Giulia Cecchettin mi ha molto colpito, forse un filo più delle altre, ed è quello da cui vorrei prendere spunto: tanto la zia quanto la sorella di Giulia, Elena, hanno dichiarato che Turetta «non voleva che [Giulia] si laureasse prima di lui, doveva essere una festa condivisa». Fermiamoci un momento. «Filippo diceva sempre a Giulia che doveva rimandare la laurea, che doveva aspettarlo», dice Elena Cecchettin. Mi chiedo: cosa vuol dire “aspettarlo”?
Questo è il dettaglio, del tutto non trascurabile, che mi ha spinto ad approfondire il rapporto tra donne e lavoro, grazie ad alcuni libri che fungessero da guida alla nostra storia sociale, emotiva e quindi professionale.
Uno di questi è Le ragazze in camice bianco di Olivia Campbell (Aboca), ossia, come recita il sottotitolo, «Come le prime donne medico hanno rivoluzionato la medicina». Pensando alla laurea imminente di Giulia e a tutto ciò che non potrà realizzare per causa di violenza maggiore, mi commuove la narrazione di Campbell, che fa conoscere al grande pubblico la storia di tre donne coraggiose (Elizabeth Blackwell, Elizabeth Garrett Anderson e Sophia Jex-Blake) che, diventando dottoresse, hanno scardinato le barriere di genere in ambito medico, favorendo le possibilità di cura per tutte le donne del mondo.
Ai primi dell’Ottocento, spinte dalle loro storie personali di perdita e frustrazione causate da cure mediche inadeguate, Elizabeth Blackwell, Elizabeth Garrett Anderson e Sophia Jex-Blake hanno cominciato a battersi perché le donne potessero accedere a un trattamento dignitoso ed equo e trovare il loro spazio all’interno del mondo della medicina che allora era esclusivamente in mano agli uomini.
Campbell parte dal principio, ricordandoci che le donne hanno sempre fornito assistenza medica, per secoli e ovunque, in qualità di sacerdotesse, erboriste, chirurghe, infermiere, sciamane, guaritrici, maghe, indovine e levatrici (sebbene l’ostetricia, di per sé, all’epoca non venisse considerata medicina). “Streghe” potremmo dire con un briciolo di sarcasmo, figure che se da un lato venivano considerate pericolose, dall’altro erano indispensabili per le loro conoscenze e abilità – non ultima, la propensione alla cura, al saper fare per l’altro, talenti che spesso le avrebbero rese deboli agli occhi degli uomini ma non sostituibili per chi di quelle cure aveva bisogno.
Quel che però è davvero sconvolgente è che ancora oggi, a partire da Agnodice (una delle prime donne medico il cui nome è attestato nei documenti storici ma di cui puntualmente si è messa in discussione l’esistenza), la storia delle donne medico si dipana attraverso biografie disseminate di dubbi e precisazioni, ricche di riserve, di “ma” e di “però”. Sono vite che vengono esaminate al microscopio, come scrive Campbell, per cui si mobilitano «stuoli di studiosi alla ricerca della minima traccia di errore».
Tutta questa «scrupolosa attenzione», agli uomini, non è riservata.
Per non parlare di cosa accadde in seguito, quando nell’Europa fra il 1400 e il 1700 la Chiesa cattolica e la Chiesa luterana presero il controllo di gran parte delle scuole mediche e misero in atto una massiccia campagna per «sbarazzarsi delle guaritrici, bollandole come streghe (eccoci, ndr) e fattucchiere». Come sempre, arriviamo allo stesso punto: dato che l’infermo, secondo il dogma della Chiesa, poteva essere guarito solo da Dio, e poiché non rientrava nelle Sue volontà che le donne esercitassero il mestiere, se ne deduceva che la capacità femminile di curare i malati potesse originare soltanto dal Demonio.
Come anticipato, il ruolo della medichessa, quasi soprannaturale nell’antichità, è scivolato anzitempo nel concetto di stregoneria, tanto che fu lungo il periodo durante il quale alle donne fu negato l’accesso a questo genere di studi, nonostante fossero profonde conoscitrici dei segreti delle piante officinali, dell’attitudine all’osservazione e al rispetto dei cicli naturali e dei bisogni dell’individuo – come recita il sottotitolo di un altro testo Aboca Edizioni, particolarmente prezioso: Medichesse. La vocazione femminile alla cura di Erika Maderna.
Erika Maderna ripercorre l'evoluzione della cultura medica ed erboristica femminile, cogliendone la varietà delle sfumature: dee, pizie, maghe, levatrici, erbarie, medichesse, vestali, sante, alchimiste e streghe hanno infatti rappresentato solo profili diversi di uno stesso volto. Una prospettiva forse inaspettata di autonomia femminile, ma conquistata comunque faticosamente.
Mentre Maderna ci accompagna in un cammino che parte dalla grande Madre primordiale, dalla Potnia, «la signora che possedeva la conoscenza della vita e dei suoi più intimi misteri», fino alle dee greche e romane, a Circe e a Medea, e ai segreti di Isabella Cortese, ci ricorda anche che «all’interno di una visione del mondo guidata dal dominio della ragione, che scalzava l’antica percezione magica dell’esistenza più vicina alle donne, cominciò a insinuarsi il sospetto che i saperi femminili si alimentassero di dottrine occulte, di pratiche esoteriche in grado di sovvertire l’ordine naturale delle cose». Da qui, la convinzione che sta alla base del lento declino che portò le antiche tradizioni a scivolare nella clandestinità.
Insomma, una questione da “femminucce”, come direbbe l’attivista e influencer Federica Fabrizio nel volume che porta proprio questo titolo, Femminucce (Rizzoli) – in cui ci racconta la lotta delle donne per il loro posto nella società e nel mondo del lavoro, donne che hanno smesso da tempo di rappresentare lo standard sociale di fiacchezza assoluta –, ma anche donne di cui in fondo si teme il potere (o la potenzialità), immobilizzate ancor prima di spiccare il volo.
Attraverso questo libro le femminucce smettono di rappresentare lo standard sociale di debolezza assoluta: da oggi lottano, si impadroniscono di tutti gli spazi, urlano, cantano, resistono, ballano. In questo percorso incontreremo donne vissute in epoche differenti, alcune molto lontane da noi e tra loro, altre decisamente più vicine, ma tutte incasellate in spazi troppo piccoli, tutte unite dall’urgenza di dire qualcosa.
Tuttavia, non solo il campo della medicina ci ricorda quanto fu grande lo sforzo delle donne per il riconoscimento della loro professionalità. Potremmo occuparci della scrittura così come, ad esempio, della magistratura. Ce lo dice benissimo Eliana Di Caro in Magistrate finalmente (Il Mulino), un’occasione per ripercorrere la storia delle prime magistrate italiane analizzando il contesto sociopolitico della presenza delle donne in magistratura, e partendo esattamente da qui: è il 1956 (sessantasette anni fa, non un paio di secoli) quando il Presidente Onorario della Corte di Cassazione Eutimio Ranelletti sostiene:
La donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal “pietismo”, che non è la “pietà”, e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.
A sessant'anni dalla legge che aprì le porte della magistratura alle donne, affondiamo lo sguardo nelle storie delle otto vincitrici del primo concorso. La fotografia di un'Italia che faticosamente cambiava volto. Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella d'Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Gabriella Luccioli sono le «temerarie» vincitrici del primo concorso che, nel 1963, aprì le porte della magistratura alle donne.
Chiudere con questa asserzione è quanto mai beffardo, stando ai dati odierni del femminicidio. Ma non voglio aggiungere altro, se non che, per quanto difficile, per quanto pericoloso stia diventando il mondo per le donne, dobbiamo poter credere che qualcosa cambierà, e forse accadrà davvero, in mezzo alle piazze, in mezzo ai cortei, in mezzo a tutte quelle donne e uomini che riconoscono il diritto alla vita e alla libertà, di chiunque e sempre. Il diritto, anche, a bruciare ideologie e convinzioni sbagliate, a ricominciare.
Perché il fuoco non distrugge soltanto, il fuoco purifica.
Di
| Aboca Edizioni, 2023Di
| Aboca Edizioni, 2022Di
| Rizzoli, 2023Di
| Il Mulino, 2023Ti potrebbero interessare
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