Sei anni. Per ben sei anni il grande fotografo Sebastião Salgado, testimone prezioso del nostro tempo, ha viaggiato attraverso l’Amazzonia brasiliana, raccontando attraverso il suo obbiettivo l’immenso e misterioso universo biologico che da quel lembo di terra, oggi gravemente minacciato, garantisce ossigeno all’intero pianeta. L’Amazzonia è il rifugio di un decimo di tutte le specie vegetali e animali esistenti: ma lo sguardo rivoluzionario di Salgado ha saputo – come sempre – andare oltre le forme del visibile, per arrivare a identificare nella biodiversità di quel mondo in pericolo quella che lui stesso definisce “la più grande concentrazione culturale del mondo”. Una ricchezza umana insostituibile rappresentata da più di duecento tribù indigene, guardiane ancestrali della foresta.
Amazônia (Taschen, 2021) è dunque la straordinaria testimonianza di un mondo nel quale si scontrano tutela dell’ambiente e delle popolazioni locali e pretese di sovranità dettate da interessi economici e strategici, un insostituibile patrimonio dell’umanità che “deve continuare a vivere.”
Per sei anni Sebastião Salgado ha viaggiato attraverso l’Amazzonia brasiliana per immortalarne la bellezza. Con la sua foresta, i suoi fiumi, le sue montagne e i popoli che la abitano, questa regione straordinaria rappresenta un insostituibile patrimonio dell’umanità.
“Noi tutti, l’umanità intera, dobbiamo prenderci cura dell’Amazzonia. Per proteggere noi stessi”: l’intervento massiccio ed efficacissimo di riforestazione nelle aree a rischio costituisce, infatti, il fulcro della potente e ambiziosa operazione dell’Instituto Terra, progetto nato nel 1998 e realizzato da Salgado per restituire alla foresta pluviale il suo sofisticato splendore originario, “punto di partenza della nostra civilizzazione”.
E in questo profondo credo a tutela del puro spirito della foresta e della sua biodiversità, il paradiso esiste: l’Amazzonia è il paradiso. Un eden sotto attacco, che Sebastião Salgado invita “con tutto il suo cuore, la sua energia e la sua passione”, a non considerare come un paradiso perduto.
Forse non è troppo tardi, per salvare l’Amazzonia. Forse non è troppo tardi per salvare il mondo.
Che stia documentando un gruppo di rifugiati o un vasto panorama, Salgado sa esattamente come cogliere l'essenza di un attimo in modo che chiunque veda una sua fotografia si ritrovi involontariamente trascinato al suo interno.
Eccoci a parlare di “Amazzonia”. Quel che sembra il suo lavoro più “naturale” è forse il lavoro più politico. È d’accordo?
Sì, “Amazzonia” è un lavoro del tutto politico.
Non è il libro, ad essere politico: è un libro che esce in un momento di grave dibattito politico a proposito dell’Amazzonia. È un dibattito molto serio perché stiamo per eliminare tutti gli spazi essenziali per la sopravvivenza della specie umana. Potranno sopravvivere forse altre specie umane, ma non quella che conosciamo.
Sono già state praticamente abbattute le foreste dell’Asia e quelle dell’Africa. Ci sono grandi porzioni delle foreste tropicali – la più grande concentrazione di biodiversità del pianeta, le aree dalle quali dipende la distribuzione dell’umidità dell’intero pianeta - che stiamo per annientare costruendo una vera e propria bomba di CO2, che restituiremo all’atmosfera creando danni irrecuperabili.
Dunque, è il momento di proteggere l’Amazzonia, e questo deve diventare il tema principale nell’agenda politica di tutti i Paesi. Il mio lavoro esce esattamente in questo momento, e quindi è un lavoro assolutamente politico: ha ragione al cento per cento.
Prendersi cura dell’Amazzonia, dunque, significa prendersi cura dei nostri figli e di coloro che verranno dopo di noi?
Sì, è così. Io parlo dell’Amazzonia brasiliana. Sapete, ci sono nove paesi amazzonici, ma il Brasile detiene il sessantacinque per cento dell’Amazzonia. Io parlo del Brasile perché il mio lavoro è centrato sull’Amazzonia brasiliana. Abbiamo distrutto pressappoco il diciotto per cento dell’Amazzonia. Distrutto.
Bolsonaro preme per spingere gente all’interno di questo spazio, e dar luogo a uno sviluppo economico attraverso la costruzione di hangar e altre infrastrutture: è il momento di difendere quella realtà per le generazioni future. O lo facciamo adesso, o non potremo più farlo.
L’Amazzonia ci regala una fonte inesauribile di biodiversità, ma ci offre anche uno specchio per vedere nelle popolazioni amazzoniche il riflesso dell’uomo com’era un tempo, senza sovrastrutture, in armonia con la natura. È d’accordo?
Completamente d’accordo.
Gli indigeni che stanno in Amazzonia siamo noi.
Siamo noi stessi, così come siamo arrivati in America ventimila anni fa.
L’Amazzonia conta un centinaio di gruppi di indios che non hanno mai avuto contatti con la cosiddetta civilizzazione. Chiaramente, queste tribù rappresentano la preistoria dell’umanità. Io ho lavorato solamente con tribù che erano già entrate in contatto con gente occidentale, alcune sessant’anni fa, altre solamente due anni fa… e dunque c’è tutta una gamma di comunità indigene più vicine alla nostra civilizzazione o che ricordano il principio della nostra civilizzazione, fino a quelle che sono completamente isolate e che – di fatto – siamo i noi stessi di diecimila anni fa.
Quindi è un enorme privilegio per la specie umana quello di poter convivere con l’immagine della sua propria storia. La nostra storia esiste, ed è là che si trova.
Essendoci il bisogno impellente di preservare l’ecosistema amazzonico per mantenere l’equilibrio di tutto il pianeta, ne abbiamo bisogno anche per proteggere quelle tribù. Perché se finiamo con quell’ecosistema, non avremo più quello spazio e non ci saranno più quelle tribù. Perderemmo tutte queste culture, per sempre.
Di
| Contrasto, 2015Di
| Contrasto, 2001Di
| Taschen, 2016Non c’è solo la fotografia, nel suo mondo: lei fa buona pedagogia anche attraverso l’azione di Instituto Terra. Come procede la riforestazione?
La riforestazione va molto bene.
Abbiamo piantato sulla nostra terra circa tre milioni di alberi, fino ad oggi.
Siamo arrivati a un livello di copertura dell’intero appezzamento, partendo dagli alberi “pionieri” alle piante secondarie.
E quest’anno abbiamo cominciato a piantare il “climax”: alberi che staranno lì per mille, millecinquecento anni. Ma questi alberi non nascono né crescono che all’ombra, hanno bisogno di terreni pluviali, hanno bisogno che la terra conservi l’umidità. Per questo, Instituto Terra sta già lavorando da una decina d’anni a “ripiantare” sorgenti d’acqua.
Stiamo per creare migliaia di foreste, piccole foreste, ciascuna di quattrocento alberi, non troppo lontane le une dalle altre. Se c’è una sorgente entro quattrocento metri, si pianta una piccola foresta.
Stiamo per creare il nostro grande spazio, cioè la nostra foresta, attraverso dei “corridoi ecologici”. La biodiversità transita, e mentre transita semina biodiversità anche là dove le foreste ancora non ci sono. Dunque, con Instituto Terra, stiamo aiutando a ricreare il pianeta.
Un’ultima domanda. I verbi che in molte lingue indicano l’atto del fotografare riassumono spesso qualcosa di aggressivo: pensiamo a “shooting”, o a “prendre des photos” ... qual è il verbo che racconta meglio il fotografare, per Sebastião Salgado?
Ricevere.
Viviamo in una società con molti limiti, con delle frontiere, con leggi castranti nate dalla religione, con molte guerre, con molti contrasti… siamo diventati una società aggressiva e abbiamo sviluppato la tendenza a definirci attraverso la nostra aggressività. Dunque, fare una fotografia non è “shooting” … cosa vuol dire “shooting”? Io non “tiro” su qualcuno. Al contrario: quando io fotografo qualcuno, è il momento in cui gli presto la mia massima attenzione.
Fotografare è prestare attenzione. È darsi agli altri e in cambio, dagli altri, ricevere qualcosa. Fotografare è ricevere. Fotografare è uno scambio. Niente più di questo.
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