Karl Lagerfeld: lo ricordiamo per aver rivitalizzato lo stile Chanel, inventato abiti e pellicce Fendi, firmato prêt-à-porter per uomo e donna, ma è stato anche un ritrattista, sempre e comunque all’inseguimento di orizzonti di bellezza.
Quando ero bambino, prima di scoprire la moda, sognavo di diventare un ritrattista
Karl Otto Lagerfeld nasce ad Amburgo il 10 settembre di un anno che resta un po’ misterioso e differisce a seconda delle fonti (1933-1935-1938…) in una famiglia alto borghese.
Arriva a Parigi nel 1952, nel 1954 vince il French International Wool Secretariat, oggi conosciuto come International Woolmark Prize, e l’anno seguente diventa assistente di Pierre Balmain. Il passo successivo è la nomina a direttore artistico di Jean Patou, ma legarsi a un singolo marchio non è la sua strada.
Cinque anni dopo lascia la maison per una carriera da stilista “indipendente”, collaborando con vari brand tra cui Krizia e Chloé.
Nel 1965 inizia la fortunata collaborazione con le sorelle Fendi.
Nel 1983 è nominato direttore artistico della maison Chanel. Entrambe le collaborazioni – a vita – si sono concluse solo con la sua scomparsa nel febbraio 2019.
Nel 1984 nasce una maison di prêt-à-porter a suo nome che diventerà prima Lagerfeld Gallery e poi Karl Lagerfeld, tutt’ora attiva.
Nel 2010 ha ottenuto, dal Fashion Intitute of Technology di New York il Couture Council Fashion Visionary Award; nel 2012 è stato eletto “lo stilista più influente degli ultimi 25 anni”.
Oltre all’incessante attività nel fashion, Lagerfeld ha anche svolto il ruolo di costumista per il cinema, La Scala, L’Opera di Firenze, il Festival di Salisburgo, l’Opéra di Monte Carlo.
Come fotografo, oltre alle attività strettamente legate alla moda, ha realizzato numerose mostre e pubblicato alcuni libri fotografici.
A lui sono state dedicate monografie e film documentari: Lagerfeld Confidential (Rodolphe Marconi, 2007), Un roi seul (Thierry Demaizière e Alban Teurlai, 2008), Karl Lagerfeld se dessine (Loïc Prigent, 2013).
Questa biografia, pubblicata a un anno dalla sua morte, ci avvicina al ragazzo precoce che preferiva disegnare in soffitta piuttosto che giocare con i suoi coetanei, al figlio che nonostante i litigi con i genitori non è mai riuscito ad allontanarsene, all'unico vero rivale di Yves Saint Laurent e infine al compagno di Jacques de Bascher.
Ci appropriamo del titolo del romanzo di Leopold von Sacher Masoch (da cui prende ispirazione il testo omonimo di David Ives e poi ancora lo splendido film di Roman Polanski) per definire il primo, fondamentale periodo di attività di Lagerfeld legato al marchio Fendi.
Per più di cinquant’anni infatti, lo stilista tedesco-parigino, che si reputava nato in ritardo di due secoli dal suo adorato Settecento, ha reinventato il capo-simbolo della donna grazie al decisivo incontro con le sorelle romane, per un risultato di “smagliante creatività”, nel tentativo di smitizzare la pelliccia come status symbol, superarne il limite, farne una espressione di scelta personale e culturale (aspetto destinato a essere contrastato al di là del grande lavoro artistico e artigianale) non più allusione sessuale per una donna-oggetto, ma rivoluzione del più antico lavoro tecnico, genialità nella reinvenzione dei materiali, originalità fuori dagli schemi.
Nel 1985, a primo coronamento di questa attività, la Galleria d’Arte Moderna di Roma gli dedica una mostra, come avevano fatto il Victoria and Albert Museum di Londra per Versace e il Metropolitan di New York per Valentino, cui seguiranno molte altre esposizioni internazionali.
In questi giorni sono come un computer connesso in modalità Chanel
Secondo lui Coco Chanel aveva già inventato tutto, compreso un nuovo modo di atteggiarsi.
Di lei diceva: «Parlava male dei creatori di moda, e lo faceva con rabbia perché gli uomini avevano più successo di lei: ma odiava anche le donne, le trovava orrende».
A lui però va il grande merito di aver regalato a questi capi un “alter-ego ironico che ha saputo conquistare le donne degli anni Novanta”. Donne a cui avrebbe voluto dedicare ancora più tempo: «L'unica cosa che mi fa letteralmente imbestialire è che le giornate siano così corte».
«È come riportare in scena una famosa pièce teatrale – dichiarava alla giornalista Suzy Menkes a proposito della sua prima collezione Chanel – Andrebbe vista con gli occhi del pubblico originario, ma anche senza troppa riverenza. È importante che i giovani scoprano lo stile di Coco Chanel e ci vuole anche un po’ di divertimento.»
In un’altra intervista a Vogue: «Non stiamo cercando di ricreare punto per punto i vestiti di Medemoiselle Chanel sia nella couture che nel prêt-à-porter. Vogliamo seguire una certa tradizione e, un po’ alla volta, introdurvi dei cambiamenti. Ai suoi tempi Coco Chanel era molto moderna; vogliamo modernizzare l’immagine della maison.»
Compito che si può senza dubbio affermare abbia portato brillantemente a termine, grazie alla raffinatezza grafica, a un nuovo ritmo e una estetica coerente e contemporanea. Ma anche alla sua continua presenza in laboratorio, al contatto diretto e costante con i collaboratori e le collaboratrici, alla incontestabile capacità tecnica e alla scelta di avvalersi del lavoro delle migliori sarte e ricamatrici di Francia.
Quando Karl Lagerfeld fu nominato alla guida della Maison nel 1983, decise di risvegliarne radicalmente l'immagine - non solo attraverso audaci collezioni ma anche, dal 1987 in poi, scegliendo di creare personalmente le campagne fotografiche della casa, mossa senza precedenti per uno stilista.
Leggendo le tante interviste che lo stilista ha rilasciato negli anni, possiamo farci un’idea precisa della sua personalità, al pari estrosa e pragmatica.
L’immagine di sé
Era soprannominato «The Fashion King», il re della moda, o «Kaiser della moda» una definizione che gli calzava a pennello, anche fisicamente: capelli prima castani, poi brizzolati o bianchissimi, ma sempre raccolti in una coda di cavallo, gli occhiali rigorosamente scuri e l'aspetto maestoso. Il colore preferito dei suoi abiti il nero, sempre in contrasto con una candida camicia con colletto a coda di rondine. Frutto di una trasformazione che l’ha visto dandy negli anni ’80 con ventaglio e allusioni settecentesche, passando per le ampie tenute della moda giapponese negli anni ’90, per arrivare ai completi più fascianti a sottolinearne la silhouette.
Le case
Lo stilista possedeva numerose residenze: una a Roma sotto i tetti di un palazzo rinascimentale, una a Parigi in Faubourg-St-Germain, una a Vienna in stile Secessione, altre due a Monaco, un castello del Seicento in Bretagna, una a New York e una ad Amburgo, arredata in stile Repubblica di Weimar.
«Le case hanno tante storie da raccontare».
Gli arredi
Non sopportava né i tessuti chintz né l'Art Nouveau («meglio il periodo déco»!). Ma il suo stile preferito è sempre rimasto quello settecentesco. Per gli ambienti moderni, invece, aveva un debole per Memphis.
«Una "maison" non è vissuta se non ha un suo profumo. Io amo la cannella e l'eliotropio. I fiori poi non devono mai mancare. Le rose sono magnifiche, ma è meglio sistemarle nei cestini. Detesto i vasi». Nelle sue profumatissime case si trovavano qua e là alcuni notevoli pezzi d'antiquariato. Fra le rarità del XVIII secolo una scatola in cui Maria Antonietta teneva i nastri per i capelli, e l'ultimo mobile che Luigi XVI commissionò agli artigiani di corte nel 1791. E poi porcellane, manifesti e gli immancabili ventagli: li disegnava per divertimento e li usava come logo delle sue creazioni di moda.
I libri
Una passione ostentata quella per i libri, che tappezzavano letteralmente molte stanze. Il suo amore per l’oggetto libro lo portò a contare su una biblioteca personale che, principalmente ospitata nella sua casa parigina, raccoglieva oltre 300.000 testi. Il sogno: realizzare una sorta di convento-laboratorio affidato all’estetica lineare e ricercata di un architetto giapponese per contenere tutti i suoi volumi.
Le scarpe
Celebre la sua passione per le scarpe. Ne possedeva un'infinità - alcune vecchie di decine di anni - quasi tutte realizzate da Lobb: «Le metti e ti dimentichi di averle ai piedi. Se pensi alle scarpe una decina di volte al giorno vuol dire che c'è qualcosa che non va», raccontava divertito.
La musica
«Viaggio e lavoro tantissimo, ma riesco sempre a ritagliarmi qualche momento per sognare ad occhi aperti, magari ascoltando Vivaldi, altrimenti non riuscirei a ricaricare le batterie».
Gli altri stilisti
In una intervista a Die Zeit, Lagerfeld aveva parlato a ruota libera dei colleghi: «Pierre Cardin? «Adesso che è entrato all'Académie Francaise potrà considerarsi immortale, con le sue licenze per calze da supermercato». Yves Saint Laurent? «Non è ancora riuscito a combinar niente con le donne». Jean-Paul Gaultier? «Non dovrebbe parlar tanto, sono meglio i suoi modelli». Dagli impietosi commenti si salvano comunque gli stilisti italiani: l'unico accenno, quasi casuale, è a Giorgio Armani. «Soffre di megalomania».
Sono le rockstar e i divi del cinema a fare tendenza, noi ci limitiamo a proporre. Io disegno abiti nei quali la gente possa identificarsi e mi piace realizzarli con stoffe soffici e fluide. È il mio modo di comunicare
Di
| L'Ippocampo, 2020Di
| Odoya, 2021Di
| Mondadori Electa, 2017Di
| City Edition, 2019Di
| Thames & Hudson Ltd, 2018Di
| Thames & Hudson Ltd, 2022Di
| ACC Art Books, 2020Di
| HarperCollins Publishers Inc, 2023Di
| L'Ippocampo, 2022Gli altri approfondimenti
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