Secondo titolo dantesco di Giorgio Caproni, "Il muro della terra", uscito nel 1975, rimanda a un ostacolo opprimente e impenetrabile al di là del quale si aprono terre sconosciute. Al vuoto e al deserto di questi «luoghi non giurisdizionali» corrisponde una versificazione scarna e sgranata, interrotta da una fitta punteggiatura, dove il suono precede e talvolta determina il senso.
A chi si parla nel discorso poetico? Il poeta spesso si rivolge a un “tu”, che può essere immaginato salvifico o che può prendere, come nel caso di Araldica di Giorgio Caproni (dalla raccolta Il muro della terra, 1975), un aspetto più coinvolto con il quotidiano.
Il “tu”, che fa compagnia all’ “io” e gli impedisce di essere assolutamente solo nel gelo della Storia, nel rumore di fondo dei giorni, è chiamato «Amore», con vocativo proprio iniziale, e indica qui la moglie del poeta, Rina (il nome proprio è infatti abbreviato nella dedica posta in testa al componimento: «A R.»).
Dunque in Araldica, il poeta si stringe alla propria metà e sottovoce, quasi in un soffio, sillaba una sorta di flautato e spaesato discorso della fine e dell’angoscia. I simboli, appunto araldici, che garantivano la nobiltà e il decoro, sono in rovina, un lungo brivido metafisico, fatto di ombra, si allunga nel cuore.
Si sarà notato (lo osserva nel suo commento Adele Dei) che la parola iniziale e quella finale della breve poesia sono proprio amore e cuore, come a riprendere una coppia tradizionale di parole in rima, che si vuole riscoprire, affrancare dalla banalità, alla maniera di Saba (e si osserverà in tutto il componimento il gioco appunto delle rime, anche interne, e di altre figure di suono).
Di contro a ciò che è celebrato e glorioso, ma ormai in disuso, in abbandono, il poeta nomina il proprio amore: una semplice e umile condivisione, che però, senza nessuna promessa ultima o metafisica, sembra ridare senso a ciò che pare non averne più.
Se il secolo è tanto ferito (e certo lo era il Novecento di Giorgio Caproni, 1912-1990), la solitudine non è però vissuta soltanto dall’ “io”. A essere soli, a stringersi dunque in una resistente compagnia, sono un “io” e un “tu”: il nucleo minimo, elementare da cui è possibile continuare a scrivere, a fare poesia, nonostante il grigiore che si allarga anonimo, e il dolore che attanaglia il secolo in cui ci tocca di vivere. Qualcosa al di qua di questa solitudine senza volto è ancora animato: un dialogo, un fiato di voce, una vellutata corrispondenza tra il cuore del poeta e l’amore della sua donna.
Di
| Einaudi, 2016Di
| Garzanti, 2019Di
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