Isto
Dizem que finjo ou minto
Tudo que escrevo. Não.
Eu simplesmente sinto
Com a imaginação.
Não uso o coração.
Tudo o que sonho ou passo,
O que me falha ou finda,
É como que um terraço
Sobre outra coisa ainda.
Essa coisa é que é linda.
Por isso escrevo em meio
Do que não está ao pé,
Livre do meu enleio,
Sério do que não é.
Sentir? Sinta quem lê!
Questo
Dicon che fingo o mento
quanto io scrivo. No:
semplicemente sento
con l’immaginazione,
non uso il sentimento.
Quanto traverso o sogno,
quanto finisce o manco
è come una terrazza
che dà su un’altra cosa.
È questa cosa che è bella.
Così, scrivo in mezzo
a quanto vicino non è:
libero dal mio laccio,
sincero di quel che non è.
Sentire? Senta chi legge.
Traduzione di Antonio Tabucchi
Da Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, a cura di Antonio Tabucchi con la collaborazione di Maria José de Lancastre, Adelphi
«Sii plurale come l’universo!» sembra essere stato l’imperativo unico di Pessoa. Nato con una «tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione», Pessoa ha spinto quella pratica della dissociazione che è all’origine di tutta la letteratura moderna, ma anche del pensiero (e Pessoa si trova al temibile crocicchio delle due forme), alle sue conseguenze più estreme e paradossali, trascinandoci «fra anime e stelle, attraverso la Foresta delle Paure», in un luogo misterioso (Pessoa stesso) dove «in ogni angolo c’è un altare a un dio differente».
Esiste un confine tra ciò che chiamiamo vita reale e un mondo diverso, parallelo, abitato da figure nate “soltanto” nella mente? Si direbbe di no, pensando a Fernando Pessoa e al baule (“la mia arca”) ritrovato dopo la sua morte, avvenuta il 30 novembre 1935 a Lisbona, dove era nato nel 1888. In quel “baule pieno di gente” (la definizione è di Antonio Tabucchi) erano riposte decine di migliaia di manoscritti del poeta: alcuni ortonimi (firmati con il suo nome), moltissimi eteronimi, cioè attribuiti a personalità fittizie, ciascuna dotata di una propria identità e autonomia esistenziale e artistica.
Il primo eteronimo, Alberto Caeiro, nacque l’8 marzo 1914, quando “mi sono accostato a un alto comò e, preso un foglio di carta, ho iniziato a scrivere, in piedi, come sempre scrivo ogni volta che posso. E ho scritto più di trenta poesie di seguito, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire”. In breve tempo, comparvero gli altri due “grandi” eteronimi: l’ingegnere navale Álvaro de Campos e il medico, grecista stoico ed epicureo Ricardo Reis.
Ciascuno di loro rappresenta una parte della personalità di Pessoa: “Ho posto in Caeiro tutte le mie capacità di spersonalizzazione drammatica, ho posto in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, adornata della musica che le è propria, ho posto in Álvaro de Campos tutta l’emozione che non dò né a me né alla mia vita”. Una vita in verità piuttosto solitaria: nella lunga permanenza in Sudafrica, dove visse da bambino con la madre e il patrigno, Pessoa acquisì quel bilinguismo anglo-portoghese che gli permise, tornato a Lisbona, di lavorare come traduttore di lettere commerciali per aziende di import-export. E intanto collaborava con le migliori riviste, ne fondava alcune, introduceva in Portogallo le avanguardie europee, ne inventava di originali. La sua unica relazione sentimentale nota, e prevalentemente epistolare, fu con Ophélia Queiroz, una collega di lavoro: si scrissero per un anno nel 1920 e per qualche mese tra il 1929 e il 1930. Pochi avvenimenti, insomma. Ma intanto dentro di lui palpitava la vita di una moltitudine.
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Dalla penna di Pessoa (e dei suoi eteronimi)
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