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Ventre di Giulia Della Cioppa

Ho letto Ventre in una mattina: due, tre ore al massimo. Appena l’ho finito, avrei voluto dimenticarlo per poterlo ricominciare da capo e amarlo con la stessa intensità. Non potendolo fare, ho provato a scriverne. Per cercare di trasmettere agli altri quello che mi ha lasciato, fosse anche solo in minima parte.

Il romanzo della ventiseienne casertana Giulia Della Cioppa è uscito per Alter Ego a novembre 2023 nella collana Gli Specchi, ed è di una potenza folgorante. È diviso in cinque atti, ispirandosi al processo di individuazione junghiana, che si divide appunto in cinque parti.

Ventre
Ventre Di Giulia Della Cioppa;

Margherita si è uccisa il giorno del suo ventiseiesimo compleanno. Senza riuscirci. È in stato vegetativo da un mese e il primario del reparto la dà per spacciata. Sua madre le fa visita ogni giorno, e le parole pronunciate al lato del letto sbrogliano la matassa della loro relazione che, come ogni legame profondo, si nutre di ambivalenze mostruose e conflittuali. Margherita, tuttavia, anche se nessuno lo immagina, vede e sente, pensa. Neppure Bianca, l'infermiera che con cura meticolosa si occupa di lei, si accorge di nulla. Nel tentativo di stabilire una connessione, però, sottopone la paziente a una pratica che si trasforma ben presto in sadica esplorazione di un corpo spento. In «Ventre», Giulia Della Cioppa architetta, grazie a una scrittura limpida e spietata al tempo stesso, una geografia emozionale che straripa dalla pagina interrogandosi sul lato oscuro del sé, sulle ossessioni e sulle ombre custodite nel corpo-prigione della protagonista. Come in una tragedia elisabettiana l'autrice mette in scena l'innaturale attenuazione del dolore, preludio alla nascita del nuovo.

La protagonista di Ventre ha ventisei anni e si chiama Margherita, come i fiori di campo, “quelli che si strappano via o si soffocano sotto passi disattenti”. È in coma vegetativo da più di un mese in seguito a un tentativo di suicidio (due boccette di Tavor rubate alla madre che soffre di depressione, accompagnate dal latte). La tiene in vita solo una macchina, è ricoperta di tubi e tubicini.

Gli altri personaggi del romanzo (la madre, il dottor Bottai, l’infermiera Bianca) pensano che lei non recepisca nulla. Margherita, invece, vede tutto. Non sente gli odori o i profumi, ma vede, pensa, commenta la realtà intorno a sé, i ricordi della sua infanzia, il rapporto conflittuale con la madre.

I loro tragitti in macchina, in cui Margherita sognava di lanciarsi fuori dall’auto, a cento chilometri orari, solo per liberarsi di lei. La volta in cui la madre le morse il polso, le staccò la pelle. Le volte in cui le correggeva le parole che scriveva nei temi, la accusava di scambiare la gelosia con la nostalgia, solo perché avevano un suono simile. La volta in cui le lanciò un pollo congelato addosso, in faccia.

Non voleva che mangiassi troppo, né troppo poco, non voleva che ridessi troppo, ma manco che rimanessi in silenzio. Non voleva che fossi seduta scomposta, di lato, di schiena, sulle ginocchia. Dovresti truccarti un po’, saresti più carina. Voleva che mi truccassi, appunto, che mi mettessi i vestiti con i fiorellini, come tutte le adolescenti un po’ francesi che portano Kant sotto al braccio. Si sente responsabile della mia morte. Forse un po’ fa bene. No, non è vero, lei non c’entra. C’entriamo io e lei.

Ora la madre va a trovarla in ospedale tutti i giorni e le legge poesie. Rilke, Pasternak, Cvetaeva, Hikmet. Poi, inizia a parlarle. Ogni tanto le muove la mano davanti alla faccia per vedere se reagisce agli stimoli. Margherita non reagisce. Non le dà questa soddisfazione.

Ma la madre non è l’unico personaggio femminile disturbante del romanzo: c’è anche Bianca, l’infermiera. Bianca che si chiama così anche se ha gli occhi di giada. Bianca che la nutre, la pulisce, la cura. Ma anche Bianca che le sale sopra a cavalcioni, Bianca che le passa la lingua sull’ombelico, Bianca che, infine, le incide la carne con il bisturi, lascia che le esca il sangue dalla pelle e poi la lecca.

Si accovaccia al letto, si appoggia sulle gambe. Sorride, poi un ghigno. Gioca con me. Cerca i miei occhi, i suoi, ossessi, trovano il mio corpo dormiente. Lo ingrandisce al microscopio. Spinge le dita, lunghe e sottili, sulle ossa dei miei fianchi sporgenti, poi ci batte le nocche del pugno e avvicina l’orecchio. «Sei morta e impotente».

Con una lingua tagliente, essenziale, e al tempo stesso estremamente poetica, fatta di metafore ardite, l’autrice racconta di legami fra donne perturbanti, di rapporti di maternità e di subordinazione, di corpi violati, di morte.

Racconta, soprattutto, del ventre. Il luogo in cui tutto ha inizio.

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