In realtà la sua vita era stata appesa a tre fili e solo l’ultimo era un fiore. L’arte era uno dei tre fili della sua vita
Al tramonto della propria esistenza un uomo si trova a osservare, ormai da lontano, la trama della sua vita, ripercorrendone le fila e ricostruendo i sottili leitmotiv che l'hanno costellata con grazia. La stessa grazia con la quale Muriel Barbery, l’autrice che ha conquistato la prima volta i suoi lettori con l’Eleganza del riccio e l'ultima con il libro uscito nel 2021 Una rosa sola, torna a stupire. La storia questa volta è di Haru Ueno, padre della Rosa del titolo precedente, appunto, che vediamo ripercorrere a ritroso le tappe di una vita tutta tesa – se non appesa – all’essenziale.
Il ritorno dell’autrice dell’Eleganza del riccio un successo da due milioni di copie solo in Italia. Con Un’ora di fervore Muriel Barbery porta a compimento il dittico giapponese cominciato con Una rosa sola (Edizioni E/O, 2021).
Era incantato che secoli di ricerca spirituale avessero portato a quella disposizione precisa. Tutti quegli sforzi tesi verso un significato, pensava anche, e alla fine una pura forma
Haru era infatti uno di quelli che cercano la forma ed è proprio questa passione a guidarlo nelle sue scelte trasformandolo da figlio di un mercante di sakè in mercante d’arte. Lo seguiamo nel corso degli anni che egli rievoca e risale fino alla fonte, facendo scorrere sullo schermo della nostra immaginazione tutte le tappe, i trasferimenti e gli incontri che lo hanno plasmato, così come la materia docile nelle mani di un vasaio.
A vent’anni aveva voltato le spalle alle montagne di Takayama e al commercio del padre per trasferirsi a Kyōto. Decisivo fu per lui l’incontro con Tomoo Hasegawa, un produttore di documentari d’arte per la televisione di Stato ma anche un ricco mecenate che si presenta subito a noi come un grande Gatsby orientale, con una casa in cima alla collina di Shinnyo-dō, che nei primi anni Sessanta egli «aveva concepito, disegnato, fatto costruire e aperto a coloro che erano assetati d’arte, di sakè e di festa». Nonostante la poca propensione dei giapponesi a ricevere in casa, da lui si incontravano artisti giapponesi e stranieri, ma anche tanti altri tipi di persone che non erano artisti ma che, come gli altri, andavano e venivano da casa sua a tutte le ore, che lui ci fosse o meno. In una di quelle serate, Haru incontra Keisuke, che oltre a essere pittore, calligrafo e poeta, praticava l’arte del vasaio.
La cosa notevole dell’incontro fra Haru e Keisuke era stata la ciotola che al principio c’era stata tra loro. Haru l’aveva vista e aveva capito che sarebbe stata la sua vita. Non si era mai imbattuto in un’opera del genere, la ciotola sembrava antica e nuova insieme, in un modo che riteneva “impossibile”.
Dopo essere stati presentati avevano suggellato con il sakè la loro amicizia. Ed è proprio l'amicizia con i suoi valori che costituisce un altro leitmotiv fondamentale. Di una vita, la sua, che «si riduce a tre nomi: Haru, quello che non voleva morire; Keisuke, quello che non poteva; Rosa, quella che avrebbe vissuto». Keisuke rappresenta il secondo filo, Rosa il terzo.
Rosa sarà figlia di una relazione fugace con una straniera di passaggio, di origini francesi. Ma la madre, una donna che soffre di depressione, impedisce ad Haru di vedere la figlia. Così egli non la conoscerà mai, ma per tutta la vita la vedrà crescere solo grazie alle fotografie. E grazie ai rapporti di un investigatore privato, che in realtà egli ha ingaggiato per seguirne da lontano la crescita. Con lei parlerà in cuor suo e le trasmetterà spiritualmente la parte giapponese che le manca. A lei, Haru Ueno rivolgerà il suo ultimo pensiero prima di morire. Che non significa scomparire, ma cambiare forma.
Dato che era buddhista solo per tradizione, ma voleva tenere insieme il tutto della sua vita, si era plasmato la convinzione che buddhismo fosse il nome che la sua cultura dava all’arte, o almeno a quella radice dell’arte che si chiama spirito. Lo spirito inglobava tutto. Lo spirito spiegava tutto. Per ragioni misteriose la collina di Shinnyo-dō ne incarnava l’essenza. Facendo quella passeggiata circolare Haru percorreva la vita nella sua ossatura nuda, spogliata dalla sua oscenità, lavata dalle sue trivialità. Con gli anni aveva capito che quelle illuminazioni nascevano dalla configurazione del luogo. Nel corso dei secoli gli uomini avevano messo insieme le costruzioni e i giardini, avevano disposto i templi, gli alberi e le lanterne, e alla fine quel lavoro paziente aveva generato un miracolo: percorrendo i viali ci si sentiva dare del tu all’invisibile. Molti ne attribuivano il merito alle presenze superiori che popolano i luoghi sacri, ma Haru aveva imparato dalle pietre del suo torrente che lo spirito nasce dalla forma, che esiste solo la forma e la grazia o la mancanza di grazia che ne risultano, l’eternità o la morte contenute nelle curve di una roccia.
Una storia dunque all’insegna dell’amicizia come «parte dell'amore», ma anche delle relazioni famigliari nelle loro sfumature più dolorose, dell’arte come ricerca della forma essenziale e, infine, della natura in quanto tempio dello spirito. Il tutto innaffiato da sakè e immerso nella grazia.
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